Inside Out
Emozionatevi!
Inside Out è un’opera davvero importante.
Al di la dell’impianto formale, come al solito eccellente, è sull’ennesima prova di coraggio dei suoi autori che mi vorrei soffermare. Infatti Inside Out, forse più di ogni altro film Pixar, è prima di tutto un’opera d’arte che osa, e non poco; anche per questo, se accolta e compresa a dovere da tutti (specie da chi si occupa attivamente di cinema) potrebbe insegnare molte, moltissime cose, su come coniugare in modo encomiabile densità autoriale e entertainment.
L’enfasi di quest’incipit è ampiamente giustificata da un’opera la cui visione non può che lasciare tanto soddisfatti quanto storditi, quasi spiazzati dalla quantità di cose che il film riesce a dirci e darci senza lesinare mai, nemmeno per un secondo, in spettacolarità.
Il lavoro della Pixar in questo senso è ormai, fortunatamente, riconosciuto, analizzato ed apprezzato ovunque ma, nonostante la grande quantità di capolavori che lo Studio ha realizzato negli anni, sembra sempre che un fuoco sacro li spinga, ciclicamente, a rischiare un po’ di più, mettendosi in gioco e alternando esperimenti preziosi (WALL•E; Up) e gioielli raffinati (Ribelle - The Brave; Monsters & Co.) a prodotti pensati scientificamente per "fare cassa" (a questo doppio passo dobbiamo opere decisamente minori come il dittico di Cars e tutti gli spin-off dedicati al franchise in questione).
Tenendo presente che stiamo parlando di un’industria che, si dice, abbia come target principale gli spettatori più piccoli, negli anni abbiamo assistito: al montaggio iniziale di Up che mostra in pochi secondi il disgregarsi delle aspettative infantili, un aborto e la morte della persona amata; al mutismo di tutta la prima metà di WALL•E; alla malinconia e al pessimismo tutto europeo di tantissime sequenze fondamentali della saga di Toy Story.
Tutto il dolore, nelle opere più complesse della Pixar, è messo sullo stesso piano della gioia e, anche se ci troviamo sempre di fronte ad un lieto fine, si esce da ogni viaggio con uno strano misto di appagamento e di vuoto, come se questi film ci spingessero a ricercare quelle piccole cose che ci rendono umani sul serio, fragili e pieni di quella polvere che nascondiamo sotto il tappeto finché non ci fa starnutire fragorosamente.
La passione e lo studio che c’è dietro ogni lavoro Pixar si trasformano spesso anche in una fusione di modi, stili e immaginari mutuati da altri mondi animati, nello specifico: la fluidità ed il ritmo Disney, il pathos ed il gusto surrealista degli anime orientali e la deriva più cupa e sperimentale di maestri come Don Bluth o Jan Svankmajer. Inoltre, che la psiche in tempestoso divenire e il punto di vista dei bambini sia il perno su cui ruota tutta la poetica Pixar è un dato di fatto piuttosto evidente. Basti pensare all’origine di tutto, Toy Story, che già intrecciava con scioltezza uno stimolante gioco meta-testuale e meta-spettatoriale con il gusto per il ludus più puro che si possa desiderare da un’esperienza in sala.
In questo nuovo film troviamo tutto quello che c’è nelle opere Pixar che più ci piacciono ma anche qualcosa di più: è un’esplicita dichiarazione d’intenti, quasi una confessione, oltre che una dichiarazione d’amore senza pari nei confronti del proprio lavoro.
Durante tutta la visione di Insiede Out percepiamo, e siamo immersi, costantemente in (almeno) tre livelli di piano: uno narrativo, uno concettuale ed uno meta-testuale. Questi si sviluppano l’uno nell’altro, gli uni grazie agli altri, sotto l’impulso delle due principali forze motrici dell’opera: da un lato si lavora per farci entrare nel film (nel suo immaginario, nel suo contesto formale) e dall’altro, contemporaneamente, si procede scavando dentro di noi, scegliendo accuratamente i fili con cui tessere una tela condivisibile, nella quale le emozioni e i ricordi delle persone sedute in sala diventano un secondo (grande) schermo, una sub-proiezione interiore in cui cambiano forme, tempi, montaggio ma a cui soggiace lo stesso sostrato emotivo, con le dovute variazioni da spettatore a spettatore.
Mentre ridiamo o ci commuoviamo per questa o quella sequenza sappiamo, con più forza rispetto ad altre opere in cui è facile riconoscersi, che lo spettatore a fianco a noi, anche se di 30 anni più grande, sta probabilmente provando le stesse emozioni per gli stessi nostri motivi, innescando un processo di rispecchiamento e potenziamento di quelle emozioni. Inside Out è quindi da annoverarsi nell’insieme dei film-concerto (secondo l’accezione coniata da Laurent Jullier a proposito del cinema postmoderno) sia per le sue qualità immersive e sia perché, come un vero e proprio concerto rock, produce un effetto sincronico sugli spettatori, che si percepiscono come tali e sono al contempo vigili, vengono interpellati direttamente, e incollati allo schermo(palco) - collettivamente e individualmente - senza però che il film debba mai ricorrere ad espedienti come strizzatine d’occhio, rotture della quarta parete etc.
E questo perché Inside Out gioca sapientemente con un mondo che, salvo spiacevoli eccezioni, ci riguarda tutti da vicino. E’ il mondo della complessità e della crescita, che tutti prima o poi dobbiamo affrontare, con esiti più o meno positivi per la nostra vita, a meno che qualcosa dentro di noi non si rompa, e si smetta di provare emozioni. Non bastasse il fatto che le cellule di cui siamo composti cambino e muoiano così tanto a cadenza regolare, rendendoci ciclicamente e di fatto "altre persone" rispetto a quelle che eravamo, magari, dieci anni prima, è indubbio che alcune parti del nostro io scompaiano o vengano sepolte nel profondo per motivi che a volte ci sfuggono.
Crescere e diventare "grandi", implica sofferenza, sacrifici, cambi di rotta e abbandoni, lo sappiamo bene o comunque lo scopriamo abbastanza in fretta: eppure il film ci ricorda con grande potenza che tutto questo in qualche modo è necessario. Di morale cattolica, ovviamente, non c’è nemmeno l’ombra e anzi la rassegnazione al fatto che il dolore incida più di ogni altra cosa sul nostro essere è un dato di fatto che viene preso molto di petto, con un sorriso amaro ma determinato, una spinta propulsiva verso la ricerca, ovunque essa porti.
Le emozioni di Inside Out sono delle protagoniste moltiplicate ed espanse, non solo banalmente perché il geniale script indica le versioni incarnate di Gioia e Tristezza (assieme a Disgusto, Rabbia e Paura) come personaggi principali, ma proprio perché le emozioni vengono costantemente problematizzate man mano che la bambina che fa da vettore del film cresce e si immerge nelle infinite sfaccettature della vita.
Allo spettatore è destinato un processo di crescita simile: vive i primi minuti del film tra stupore, meraviglia e una diffusa sensazione di euforia derivata dell’inizio di un’esperienza completamente nuova. Poi, gradualmente, ogni emozione – sia quelle che agiscono, sotto forma di personaggi, nel film, che quelle disincarnate che questo produce e che automaticamente sentiamo muoversi dentro di noi – si arricchisce di sfumature, di colori, di luci ed ombre, si confonda con le altre.
E’ un film pieno di ossimori estremamente tangibili Inside Out: chi di noi non ha provato una triste allegria? O non è stato felice di essere triste (magari proprio commuovendosi al cinema)? Chi non si è arrabbiato e contemporaneamente spaventato a morte della propria stessa ira o, come capita quando un film horror non è alla nostra altezza, arrabbiati di non essere spaventati?
Tutto questo, che sembrerebbe essere oggetto di convegni di psicanalisi e cognitivismo, in Inside Out è materia vibrante di racconto e immagini spettacolari, in aggiunta ad una quantità incredibile di altri temi e motivi centrali probabilmente mai mostrati al cinema con tale leggerezza ed efficacia – memorabile la sequenza dell’isola dell’Immaginazione in cui le emozioni vengono destrutturate facendo riferimento in pochi secondi a tutto un ipertesto di riferimenti culturali che vanno da Jung a Dalì passando per il lungometraggio animato di Yellow Submarine.
Che il film sia un capolavoro crediamo sia innegabile, ma – come ricorda Gioia in uno dei tanti passaggi caratterizzati da un humour sempre tagliente e puntuale – fatti e opinioni sono così simili che si fa confusione e spesso si mescolano tra loro.
Ecco, almeno su questo film cerchiamo di non confonderci.