Inside Out / Una cosa divertente che non farò mai più
Il nuovo racconto di formazione della Pixar si rivela un'elegia della tristezza contro la dittatura dell'Intrattenimento organizzato voluto dalla società contemporanea
Nel 1995 David Foster Wallace fu inviato dalla rivista Harper in missione crociera: 7 giorni a bordo di una nave extra-lusso da 47.255 tonnellate spedita a spasso per i Caraibi, obiettivo un reportage personale e senza limiti che raccontasse l’esperienza. Il risultato? Una cosa divertente che non farò mai più, saggio di irresistibile umorismo e acuta analisi sociologica sul caratteristico fenomeno de “l’americano in vacanza”, ma soprattutto una finestra aperta sul Grande Intrattenimento Organizzato, quel sistema di lusso e stimolazione costante il cui scopo è cullare ciascun passeggero in un limbo prenatale che scacci ogni pensiero di morte, stress ed ossessione. Cosa c’entra questo con Inside Out, l’ultimo lungometraggio d’animazione targato Pixar? Tutto.
A venti anni tondi dal primo Toy Story, la squadra capitanata da John Lasseter continua a narrare l’intrinseco movimento della vita, con un’attenzione particolare ai passaggi che conducono dall’infanzia all’adolescenza e da lì all’età adulta. Il cambiamento è sempre una sfida ma anche una difficoltà necessaria a crescere, in un percorso di grande coerenza cui dobbiamo alcuni dei migliori racconti di formazione degli ultimi anni.
Inside Out non fa differenza, ma l’ambizione e la volontà di sperimentare e giocare con la macchina cinematografica porta lo sguardo fin dentro la mente, dove risiedono le personificazioni delle nostre emozioni primarie: Paura, Disgusto, Rabbia, Tristezze e Gioia, incarnazioni che si alternano al controllo del sistema generale, ovvero l’undicenne Riley. Tuttavia appare presto evidente come sia Gioia a tenere maggiormente il timone: suo il compito di mantenere Riley costantemente felice e ottimista, su di giri e adrenalinica, come del resto la vorrebbero vedere sempre i suoi genitori. E’ lei a dettare ordini, lei a risolvere ogni situazione con uno sprazzo di allegria, sempre lei a cercare di confinare gli eccessi degli altri e in particolare di Tristezza. In poche parole una dittatura della gioia e dell’allegria, che si ripercuote nell’ossessione di voler conservare e rievocare solamente ricordi felici. Tutto ciò che si tinge di blu (per antonomasia il colore della tristezza) deve essere bandito, ignorato, nascosto. Meglio se gettato in quella selva oscura del subconscio, o ancora nelle fosse interstiziali nelle quali si cancellano i ricordi.
Restituito come un colossale archivio multimediale 2.0, l’animo umano diventa così un meccanismo da proteggere nei confronti di una tristezza incombente che pare incapace di “restare al suo posto”. In questo (come molto altro) Pete Docter e compagni sono bravissimi nel rendere tanto anfetaminica Gioia quanto lamentosa e istintivamente antipatica Tristezza, e non a caso la risoluzione del conflitto interno al film e la stessa evoluzione della piccola Riley dipendono proprio dal crollare di questa divisione marmorea e manichea. La soluzione sta nel tingersi del giallo di Gioia e del blu di Tristezza, in una nuova tinta di malinconia soffusa, esempio dei tanti sentimenti complessi ma ugualmente necessari che crescendo ciascuno di noi deve imparare a gestire.
Senza avanzare in altri dettagli di trama risulta evidente allora come Inside Out ci racconti uno dei tratti distintivi del contemporaneo, ovvero il dilagare di quello che – ispirandoci a Wallace – possiamo definire come il Grande Intrattenimento Organizzato, aspetto fondamentale di quella condizione post-ideologica in cui rischia di precipitare parte crescente del nostro vivere. Non serve ritornare al Secolo Breve e al crollo dei sistemi di pensiero forti per accorgerci di muoverci oggi in una società liquida di cui uno dei motori primi è proprio l’Intrattenimento, lo stesso che Wallace denunciava anche nel gargantuesco Infinite Jest. Organizzato attorno a noi nei termini della dipendenza, l’Intrattenimento diventa una fede essenziale, risultato feticistico di una totale mercificazione dell’individuo.
E’ questo il meccanismo che Wallace individua al centro dell’attrazione esercitata dalle crociere extralusso di caraibica portata, l’impegno da parte del sistema di controllo a mantenere il soggetto ospite in un costante stato di felicità, quel “sublime isterico” di cui già parlava Fredric Jameson e di cui Gioia è una perfetta incarnazione: alla crisi d’identità subentrata al crollo delle ideologie novecentesche il soggetto viene portato a rispondere con uno stato di costante eccitazione priva di autoanalisi; non c’è esplorazione di sé, l’individuo mercificato diventa icona e simulacro fittizio la cui umanizzazione viene dissolta a favore dell’appiattimento e dell’omologazione. E poco cambia se l’esito paradossale di queste costanti iniezioni di Intrattenimento è alla fine l’apatia, la stasi televisiva di cui Homer Simpson è il perfetto ritratto (non lontano dalle vittime della cartuccia realizzata da James Incandenza), del resto a rimanere nel lato oscuro del Grande Intrattenimento Organizzato sono comunque le stesse pulsioni di morte, quell’ansia per una condizione mortale inevitabile da obnubilare con l’assunzione di dosi quotidiane di divertimento. Ma chiaramente di simulacri si tratta, di sublimazioni rincorse a colpi di auto-miglioramento, vendita di sé e like di social network.
Inside Out allora ci racconta proprio di questo, dei limiti di un mondo che impone l’Intrattenimento a discapito della Tristezza, il cui ruolo essenziale all’interno del processo di crescita viene spesso negato. Ma una vita drogata dal Grande Intrattenimento Organizzato è una vita vuota, non c’è nulla di cui vergognarsi nell’essere tristi e soprattutto della capacità di provare questa gamma di sentimenti. L’importante è fare come Riley e le sue emozioni, imparare ad accettare il rapporto dialettico tra gioia e dolore e la sua necessità.