Io sono Tony Scott, ovvero come l'Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz
Anthony Joseph Sciacca, un'ipotesi leggendaria. Un grande clarinettista internazionale e la sua folle discesa nel paese dei Belluscones.
«Dei tanti sbagli che fece nella sua vita,
il più grave fu senza dubbio quello
di stabilirsi in Italia alla fine degli anni ’60.
L’Italia con Tony dimostrerà di essere il paese incivile
e imbarbarito che tutto il mondo conosce.»
Dichiarazione di Franco Maresco
Invitato fuori concorso alla 71ª Mostra del Cinema di Venezia, Belluscone – Una storia siciliana in un primo momento stava diventando un caso “cinematografico” dopo la veemente richiesta di sequestro da parte del Senatore di Forza Italia Lucio Malan, che riteneva suddetta opera offensiva e lesiva verso il suo padron… ehm Presidente di partito. Fortunatamente Malan non è stato ascoltato, la sua italiota pretesa è stata cestinata, e il documentario di Franco Maresco ha potuto quindi concorrere e, alla fine, aggiudicarsi anche il Premio Speciale della Giuria Orizzonti. Tutto bene quello che finisce bene… eppure in questo ottimo Happy End, che premia un valido e necessario documentario, c’è una pecca, un refuso. Sicuramente è solamente un venale peccatuccio messo in luce da un puntiglioso critico cinematografico, ma questo piccolo fallo conferma di nuovo la poca attenzione della stampa verso un certo cinema italiano. Infatti Belluscone è stato presentato e salutato come l’esordio cinematografico in solitaria di Franco Maresco, dopo un lungo e proficuo rapporto artistico con il sodale Daniele Ciprì. Ma questo sbaglio, dettato da una disattenta stampa italiana, va doverosamente corretto, anche per riportare alla luce il suo reale esordio da separato. L’opera “numero uno” in questione di Maresco è il documentario Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista del mondo, che il regista palermitano, a posteriori, considera il secondo tassello dell’ideale trilogia cominciata con Il ritorno di Cagliostro (2003) e terminata proprio con Belluscone – Una storia siciliana.
Presentato al 63º Festival di Locarno nel lontano 2010, Io sono Tony Scott era stato ampiamente elogiato alla presentazione nella kermesse Elvetica, ma poi non è stato distribuito ed infine è stato dimenticato. Purtroppo questo documentario monografico non è riuscito a generare nemmeno una flebile polemica come avrebbe voluto il regista palermitano, che come rileva la seconda parte del chilometrico titolo, voleva essere anche un attacco all’ “analfabeta” società italiana che non tutela gli artisti, cioè quelli veri e non quelli “circensi” di cui lo Stivale è saturo. Ok, ma chi sarebbe questo famigerato Tony Scott? E perché tale personaggio meriterebbe un lungo documentario/tributo? La risposta è molto semplice, perché Tony Scott, alias Anthony Joseph Sciacca (Morristown 17 giugno 1921 – Roma 28 marzo 2007), è stato uno dei più grandi clarinettisti del Jazz e della musica. Un artista virtuoso e geniale ma dalla vita rocambolesca e folle. Quindi i due elementi primigeni, genialità e sregolatezza, per una classica biografia ci sono, e a questi usuali ingredienti bisogna aggiungere che Scott ha avuto una triste parabola discendente che è terminata in Italia, nel silenzio più totale. Ed ecco che, seppur post-mortem, Maresco gli dedica quel rispetto che merita, attraverso un documentario, come sottolinea il “doppio” titolo, che da un lato vuole essere un tributo e dall’altro una pungolante polemica verso l’insipienza culturale dell’Italia.
Tony Scott, che come si evince dal suo vero nome era un italo-americano, ha solcato oltre sessant’anni di musica jazz, percorrendo però queste sei decadi a modo suo. Ogni decennio una improvvisa svolta artistica, ma allo stesso tempo anche una sicura discesa verso il baratro della follia. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, in piena e vulcanica età dell’oro del Jazz, Anthony Sciacca collabora, solo per citare qualche sonante nome, con Art Tatum, Lester Young, Dizzy Gillespie, Charlie Parker, Sarah Vaughan, Billy Hollyday e persino nella divina e agognata orchestra di The Duke, alias Duke Ellington. Età veramente d’oro per Scott perché in questi anni si aggiudica anche per ben quattro volte il premio come miglior clarinettista, dato dalla notoria rivista musicale Down Beat. Ma Scott lascia tutto questo “sicuro” mondo musicale per andare a scoprire nuova musica in nuovi posti. Si spinge fino nell’estremo Oriente, Giappone ed Indonesia, dove si fa apprezzare (per la sua arte) e disprezzare (per il suo stile di vita). Ma questa sua fuga alla “Gauguin” si rivela commercialmente utile per Scott e preziosa per la storia della musica, infatti Scott è un precursore della futura World Music. Negli anni Settanta decide di trasferirsi in Italia, e dopo un favorevole inizio musicale, anche attraverso la produttiva collaborazione con Romano Mussolini, la carriera di Scott incomincia a planare verso il basso, irrimediabilmente, tra esibizioni in feste di paese o apparizioni in scadenti trasmissioni televisive. Da un lato colpa della desolante scena musicale nostrana, intesa come carenza di strutture, dall’altro per i comportamenti sempre più maniacali di Scott.
Ed su questa lunga, folle e variegata carriera, che si sovrappone e si mischia senza continuità alla vita privata, che Franco Maresco tesse il suo denso e sentito documentario monografico. Un esordio in solitaria che comunque non si distacca dalle opere che aveva co-realizzato con Ciprì. Non solo perché il girato in cui Tony Scott viene intervistato era stato realizzato a suo tempo con il suo compare, ma anche per quel gusto del grottesco che aveva contraddistinto lo stile dei due registi siculi, come si arguisce anche dal kubrickiano titolo. Ben inteso, un grottesco più controllato, meno vistoso. In queste corpose due ore di montato, organizzato in capitoli, Maresco riesce a fondere il ricco e raro materiale di repertorio con le interviste a svariati esponenti della musica jazz. Il profondo intento di Maresco è quello di riuscire, attraverso il materiale video non sempre assemblato cronologicamente, a ricreare e far trasparire quegli svolazzi pindarici artistici di questo irrazionale musicista. E con le interviste ai personaggi che lo hanno conosciuto o lo hanno semplicemente ammirato, a riannodare i fili del discorso e ricollocare la figura dell’artista nell’ambito serio della scena musicale. Il multiforme materiale video, scovato nei più reconditi magazzini sparsi per il mondo, ci conferma visivamente anche questa inesorabile discesa. Se nei vecchi e graffiati filmati americani lo vediamo suonare in impeccabili abiti classici con alcuni grandi esponenti del jazz, nei filmati più recenti lo vediamo, in sdruciti abiti beatnik, sul palco di qualche concertino di qualche sperduto paese italiano, oppure ospite di Paolo Bonolis nella trasmissione Il senso della vita. Tra questi due estremi le affascinanti e originali immagini, provenienti da un documentario realizzato in Francia, in cui Scott sembra un bohemien d’antan che suona per le strade di Parigi.
L’altro aspetto del documentario, cioè quello polemico, che ha dato origine al progetto e poi la spinta finale alla realizzazione di questa opera, è però quello meno riuscito. In esergo viene riportato uno stralcio delle dichiarazioni di Maresco alla presentazione della pellicola, parole sacrosante e veritiere, ma anche un poco forzate, perché il baratro artistico Tony Scott se l’era creato finanche se stesso. Oltre all’appello finale in cui, attraverso un lontano cugino di Salemi, viene chiesto allo stato italiano una tomba a questo grande artista internazionale – ma di origini italiane – Maresco riesce comunque a mostrare lo stato comatoso e vergognoso dell’Italia proprio attraverso quei lacerti video in cui Scott si trova ad interloquire con Paolo Bonolis. La cultura sconfitta dal becero spettacolo populista. Ma l’importanza del documentario Io sono Tony Scott, al di là di Maresco o della diatriba sulla gestione della cultura in Italia, è anche perché il cinema italiano è stato avaro nel tentare di produrre pellicole monografiche su artisti jazz. Torna alla mente solo un altro coraggioso tentativo, cioè quello di Pupi Avati che nel 1991 ci mette anima e corpo (e soldi) per realizzare Bix – Un’ipotesi leggendaria. Un’opera di fiction claudicante ma che per lo meno tentava una strada differente. Tra le due, in ogni modo, si consiglia quella di Franco Maresco.