Triple Frontier
J. C. Chandor cala i suoi anti-eroi in una disperata lotta alla sopravvivenza tra critica socio-politica e conflitti interiori.
Addentrarsi nel cuore del nemico, effettuare il colpo impossibile e andarsene col bottino. Possibilmente tutti interi. Questo è il piano dei protagonisti di Triple Frontier di J. C. Chandor, un quintetto di ex militari statunitensi che, ormai sfiancati da una vita all’ombra del proprio Paese, decide di prendersi il meritato riscatto rapinando il covo di un trafficante di droga immerso nella jungla sudamericana. Ma quando la missione sembra prossima alla riuscita il disastro si abbatte sullo sparuto manipolo, intrappolato in una terra ostile e costretto a una fuga tanto rocambolesca quanto amara. Ed è da questo momento che l’action prodotto da Kathryn Bigelow, scritto da Mark Boal e approdato su Netflix dopo un decennale travaglio produttivo (la stessa Bigelow avrebbe dovuto dirigere il progetto), mette a frutto tutti gli elementi raccolti sapientemente in un’ora di film, dando consistenza alle ombre che si dipanano sui suoi anti-eroi.
A partire dall’Anabasi di Senofonte, storie di plotoni in lotta per la sopravvivenza, sperduti in mezzo alle file nemiche, hanno alimentato l’immaginario letterario prima e cinematografico poi. Dal bellico Non è più tempo di eroi di Robert Aldrich ai survival di Walter Hill I guerrieri della notte e I guerrieri della palude silenziosa, - questi ultimi due i più aderenti al modello greco -, la spedizione verso l’interno si è riconfigurata come metafora socio-politica con cui rileggere i fallimenti di una nazione, ma anche come teatro di conflitti interiori in cui gli eroi devono imparare a confrontarsi con sé stessi e con i propri compagni, oltre che con il nemico. Triple Frontier opera in entrambi i sensi, procedendo a una messa in discussione di quell’eroismo espresso nel testo di Senofonte. La critica a una nazione che continua a dimenticare i propri reduci trasformandoli in mercenari, che conduce una fallimentare guerra alla droga e deve misurarsi con le conseguenze scaturite in anni di disastrose politiche estere (cui allude l’incontro sfociato nel sangue tra i cinque protagonisti e il villaggio di coltivatori) non limita squarci su una dimensione più universale. La catabasi del film (il viaggio verso la costa), vero cuore dell’operazione di Chandor-Boal, non si risolve solo in un confronto con i fantasmi di un Paese disilluso - a partire dalla caduta di ogni retorica patriottica che fa da premessa al film - ma diventa per i cinque terreno di maturazione individuale e collettiva, prova dolorosa in cui i confini etici saranno sempre più ambigui e le distinzioni tra rivalsa e avidità, dovere e orgoglio, giustizia e carneficina sempre più labili.
Anche quando le redini morali vengono riafferrate, in nome dell’amicizia e di un riscatto ben più importante di quello economico, Triple Frontier ha comunque la lucidità di ricordarci che non basta un colpo di spugna per cancellare gli errori commessi. Perché se nel finale è possibile provare a dare un senso in extremis a una missione che di senso si stava svuotando sempre più, non è altrettanto possibile dimenticarne le tragiche conseguenze e sedare il dubbio di aver vanificato ogni sforzo. E non basta nemmeno un biglietto con delle coordinate geografiche verso il bottino per ricordarci che forse la ritirata dei Diecimila, attraverso la testimonianza di Senofonte, settanta anni dopo la spedizione, può essere servita ad Alessandro Magno per compiere ciò che prima non era stato possibile. Appunto, Non è più tempo di eroi. Non è possibile insomma seguire il finale di Triple Frontier e non pensare agli anti-eroi crepuscolari, sconfitti e disillusi, della New Hollywood. Chandor guarda a tale immaginario - e già solo a leggere la trama di questo Netflix original vengono alla mente le folli imprese di Peckinpah, Hill, ma soprattutto il Friedkin di Il salario della paura -, dimostrandosi affine a quella congerie culturale nello spirito ma non nell’estetica. Al contrario, opera delle scelte stilistiche diametralmente opposte ai clamori e alle soluzioni ardite di quel cinema. Una regia asciutta, un montaggio che valorizza le calibrate scene d’azione senza eccedere. Pochi elementi, quelli capaci di tenere sempre alta la tensione - notevole la sequenza nella villa - dando risalto alla scrittura drammaturgica. Peccato solo per le musiche piuttosto sciatte delle scene adrenaliniche. Un accompagnamento sonoro più accurato sarebbe stato il tocco ulteriore. Ma non importa. Di film come Triple Frontier vorremmo vederne sempre, su Netflix o ovunque sia possibile.