Tre volti
Jafar Panahi racconta la provincia iraniana e tre generazioni di donne alla ricerca del proprio posto nel mondo.
Dopo Taxi Teheran, il regista iraniano Jafar Panahi torna al volante per un nuovo viaggio in auto, una nuova incursione oltre il divieto di creare e mostrare. Questa volta, Panahi si spinge fuori dalla capitale, tra le alture del nord-est e verso la periferia di un paese immenso e ricco di ambiguità. Tre volti si accende con un piccolo mistero, con l’intenzione di parlare d’altro: di uomini e soprattutto di donne, di vita quotidiana e lotta altrettanto quotidiana, di vite e di prigioni.
Attraverso l’inquadratura tremolante di uno smartphone, le prime immagini del film sono quelle di una ragazzina impaurita. Marziyeh registra un video dove confessa la propria disperazione: la famiglia non le permette di studiare e diventare un’attrice. Dopo la confessione, la ragazza mette in scena il proprio suicidio per impiccagione.
Riemerso dal formato verticale e dalle immagini sgranate del telefonino, lo spettatore scopre che il destinatario del video è una nota attrice iraniana, Amin Jafari (Amin Jafari), a cui la ragazza fa appello. Un mistero da risolvere, un senso di colpa da fugare: il suicidio è vero o simulato? Ed è vero che la ragazzina ha provato più volte a contattare Amin, senza successo? A partire da queste domande, Amir e il regista (Panahi che interpreta ancora una volta se stesso) partono in auto alla volta del villaggio.
Tre volti è un film in viaggio, se non “di” viaggio: l’auto è una cabina di regia mobile, un luogo di incontro, uno spazio di reclusione forzata a partire dal quale l’autore costruisce un film giocato su barriere, muri e confini. Il viaggio esplode in un gioco narrativo dove tasselli documentari e di finzione sono accostati senza soluzione di continuità e dove emerge, prima del desiderio di tessere storie, quello di testimoniare.
Questo è il quarto film di Panahi da quando il governo iraniano gli ha vietato di realizzare film o viaggiare all’interno del paese o all’estero: un confino su cui il regista riflette attraverso le sue immagini e la sua messa in scena. Panahi riesce a trasformare i vincoli e i divieti in un’opportunità: Tre volti è ambientato quasi esclusivamente dentro e attorno il veicolo, che l’autore trasforma, volta per volta, in teatro di posa, spazio mentale, camera oscura da cui costruire un’immagine del mondo esterno. Oppure, a volte, un’auto è soltanto un’auto: un veicolo ingombrante, inadatto alla strada a senso unico che conduce al villaggio e che costringe a complessi rituali di segnalazione con il clacson per evitare tamponamenti e conflitti. Il futuro, tra le montagne, arriva solo a fatica, e quando arriva non è sempre equo: gli abitanti del villaggio si lamentano del fatto che ci sono più antenne che medici, e che la gente di città si fa viva solo quando ha bisogno di qualcosa e mai per dare loro una mano.
Dalla sua postazione di guida e di regia, Panahi interroga la tradizione e le paure del paese, dove le donne sono tenute sotto lo scacco del patriarcato: Amin, Marziyeh e anche l’anziana Sharazhad, stella dei tempi d’oro del cinema iraniano che l’autore immagina come esiliata al limitare di questo villaggio sospeso nel tempo, isolata e scacciata come una strega ma ancora orgogliosamente artista. Tre volti e tre generazioni che il regista immagina danzare insieme, all’ombra di una lanterna, protette dall’oscurità della notte e dal giudizio degli uomini che hanno stabilito i rigidi paletti delle loro vite.
La distanza tra Teheran e il paesino di montagna è anche temporale: la capitale è immersa nel caos del traffico e del rumore, è il calderone ribollente dove la ragazza vuole studiare cinema e andare incontro al futuro. Il viaggio verso le montagne riporta, invece, ad un passato tribale e tradizionale, sospettoso verso l’avvenire e legato ad un misticismo quasi pagano.
Quello di Panahi è, letteralmente e allegoricamente, un viaggio nel tempo, e Tre volti è da intendere, innanzitutto, come uno zibaldone di appunti, poesie, note di colore e fulminante bellezza. Con lo stile agile che gli è proprio, Panahi ci accompagna oltre la soglia di un Iran irriducibile a etichette e aggettivi perentori, invitandoci ad osservare e capire. Anche se è difficile immaginare un futuro roseo per Marziyeh, non tutto è perduto: l’autore sembra suggerirci che la ragazzina non è sola e che il desiderio di libertà è più forte di una lunga storia di repressioni e paure.