Indiana Jones e il quadrante del destino
È forse l’unico Indiana Jones possibile, oggi, quello che “parla” meglio il linguaggio del cinema digitale ma che, paradossalmente, è anche vittima delle sue dinamiche. Fortuna che Mangold non accetta di soccombere al sistema, asseconda la sua anima melò e riscopre un’umanità che si ribella ai dati.
One last (train) ride. Ma è davvero così? Indiana Jones e il quadrante del destino è stato presentato fin da subito come il racconto della senilità di Indy, la sua ultima avventura. Eppure colpisce il modo tutto particolare con cui viene messo in scena questo crepuscolo dell’eroe. Perché James Mangold, che da Spielberg ha ereditato personaggio e linee narrative essenziali, non si nasconde e affronta la questione da subito. Al centro della sequenza di apertura del film, impegnato a recuperare dai nazisti un artefatto che, quasi venticinque anni dopo, rischierà di mettere a repentaglio i delicati equilibri geopolitici, c’è infatti un Indy sottoposto a un’evidente procedura di deaging. Che è un po' come ammettere, da un lato, che tornare indietro ai tempi, ai ritmi dell’avventura spielberghiana è impossibile senza un’immagine “dopata”, ma dall’altro significa anche riconoscere che forse non ha più neanche troppo senso farlo. Meglio, piuttosto, prendere atto di quanto, ormai, ci troviamo in altri spazi, scopertamente digitali, a tal punto che, colpisce dirlo, questo nuovo scontro di Indy con i nazisti, questa fuga a perdifiato dal treno blindato in corsa, guarda certo al fumetto classico d’avventura ma anche, perché no, a un classico del gaming bellico come Call Of Duty.
Indiana Jones e il quadrante del destino contiene in sé un altro momento di svolta per l’autoanalisi del cinema contemporaneo, in un’annata hollywoodiana che sembra voler ragionare a testa bassa sulla sua crisi, sul suo futuro. Ma dopotutto, dopo killer in due pezzi e arrampicamuri, era inevitabile tornare qui, all’archeologo che forse per primo ragionò meglio di frammenti persi nel flusso della postmodernità, di media in mutazione, di ciò che rimane indietro. E certo Il quadrante pare davvero scegliere, almeno in apparenza, la strada più radicale per ragionare sul problema, impegnando il suo protagonista in una fuga nel digitale affascinante per come porta a ripensare tutta la genealogia di questo revival che, forse, ha ben più a che spartire con lo straordinario Tin Tin di Spielberg/Jackson/Moffatt che con la saga originale.
Ma siamo, appunto, solo all'incipit perché non appena il racconto entra nel vivo e la storia si sposta al 1969 diventa chiaro come il film non voglia portare a fondo quest'approccio estremista. E per certi versi è comprensibile. Lo status di icona di Indy è in effetti troppo saldo per ribaltarne le fondamenta. Eppure è evidente che il personaggio sembra percepire il cambiamento dello spazio mediale con cui si interfaccia. A raccontarlo, basterebbe forse anche solo il suo rapporto con la vecchiaia, quasi più uno status che una condizione capace di inficiare davvero il corpo e la mente del protagonista, in grado, piuttosto, di porsi al centro delle sequenze più dinamiche con la stessa reattività delle origini. Sembrerebbe un ritorno alla stilizzazione da comic book del personaggio, ma si tratta anche di una scelta funzionale, una riduzione del protagonista a un’essenzialità tipica del personaggio-funzione, al modello liberamente delocalizzabile.
Quello di James Mangold pare davvero l’unico Indiana Jones possibile, oggi, il film della saga che ragiona forse con più urgenza sul destino di quello sguardo postmoderno delle origini, aprendo il frammento, come già fatto da Favreau e Filoni in Mandalorian, a un dialogo con lo spazio mediale esterno, trattandolo alla stregua di un link in aggiornamento costante, certo, ma soprattutto costruendo interi nuovi mondi su di esso.
All’Indy di Mangold, sempre meno “personaggio”, sempre più avatar in continuo movimento, va il compito di abitare questi spazi, costruiti a immagine e somiglianza del Canone cinematografico americano: ecco dunque il war movie aldrichiano del prologo, il paranoia movie à la Pollack della sequenza newyorchese, l’avventura bogartiana di Tangeri e infine il vertiginoso peplum. Abbraccia lo zeitgeist senza guardarsi indietro, Il quadrante del destino, nel bene e nel male, costruendo intere sequenze che lasciano in primo piano certe forme essenziali della contemporaneità (con l’ultimo atto che pare davvero un saggetto su loop e immersione nell’immagine) ma anche lasciando emergere sempre più l’elemento artefatto del suo spazio d’azione, tra ambienti che sembrano diorama opprimenti e un Indy che, pur di negare costantemente i suoi anni, pare sempre più un dummy digitale. Forse la “contemporaneità” de Il Quadrante la si riconosce soprattutto dal tentativo di rendere elemento modulabile, sintetizzabile anche (forse soprattutto?), la regia, il respiro dello stesso Spielberg.
Il chiaro dietrofront rispetto alle premesse iniziali è in effetti il più grave colpo a vuoto del film, che forse asseconda la paura quasi atavica di non apparire davvero autentico, di essere percepito falso come la lancia di Longino che apre il racconto. E allora il narrato perde la bussola, lascia poco spazio ad alcuni riattraversamenti inediti, personali, di certi elementi cardine della saga, tra il grande ritorno delle riprese “dal vero” e uno sguardo politico che attualizza i vecchi estremismi e preferisce inseguire il fantasma di uno sguardo inafferrabile. E così si torna all’inizio, a un film divertito, divertente ma privo dell’ariosità delle origini, rallentato piuttosto da una rigidità di fondo e una CGI mai così invasiva. Ma è prevedibile, è un film contemporaneo, questo Indy e lo è, lo si è detto, nel bene e nel male, anche quando si avvicina al rischiosissimo, impersonale cinema-algoritmo dei Russo.
O forse no. Il Quadrante pare in effetti il nervoso contraltare di Across The Spider-Verse. Se il film Marvel/Sony raccontava la sintesi perfetta tra l’elemento umano e lo spazio digitale, la capacità dei dati di preservare il calore analogico, il film Disney è evidentemente più irrequieto. Perché Mangold non si rassegna a cedere il passo al sistema. Piuttosto scalpita sotto la superficie, riesce a lanciarsi in inattese vertigini action (come l’inseguimento a cavallo nella metro di New York) che sembrano davvero catturare quello sguardo originale cercato fino a quel momento con la sola tecnologia ma ha soprattutto l’onestà intellettuale di riconoscere quanto il suo spazio di riferimento sia quello del melò, più che quello dell’action. È forse questo il senso della sua ribellione, quello che lo porta a firmare un film decentrato, fuori fuoco, in cui la sua voce pare solo raramente in primo piano ma che quando lo è racconta una storia davvero crepuscolare in questo senso, tesa tra lo sguardo smarrito di Indy che si ritrova a guardare il cadavere di un’amica uccisa, il calore di un abbraccio di riconciliazione e il sollievo di aver confessato un dolore sopito da troppo tempo, una storia umana non più oltre la macchina (come Spider-Man) ma forse nonostante la macchina.