Little Joe
Presentato in concorso a Cannes 2019, l’ultimo film nato dallo sguardo prezioso di Jessica Hausner si serve di un contagio invisibile per giocare a psicanalizzare i demoni della mente umana.
Joe e Little Joe, il ragazzino e il fiore creato in laboratorio da sua madre Alice, che coi suoi colleghi scienziati afferma possa procurare una sensazione di felicità a chi ne inala la fragranza. Ecco però un problema: alcune procedure laboratoriali non sono consentite ma Alice s’azzarda comunque, nonostante il pericolo. La conseguenza è la diffusione di un virus contenuto nel polline, un microrganismo che finisce per assumere le funzioni di un patogeno ad alto rischio infettivo, pur considerato in un primo tempo innocuo. È senza dubbio curioso rileggere prospetticamente l’ultimo lavoro di Jessica Hausner, Little Joe, a un anno dalla sua presentazione al Festival di Cannes (dove era in lizza per la Palma d’Oro) e in considerazione dell’odierna dinamica pandemica: il sapore è un po’ quello di una sua occulta preconizzazione. Ma provvediamo ad allontanare le immediate similitudini assieme all’eventualità di teorie cospirazioniste per guardare, invece, al film della regista austriaca come all’ultimo tassello di un’indagine autoriale sulla psiche umana, il cui primo passaggio consapevole e degno di nota risale a dieci anni prima, con un lungometraggio in lingua francese, Lourdes (2009).
Rinsaldando la tenuta della tecnica dei precedenti lavori, senza però acuirla, la Hausner applica anche qui un metodo quasi analitico che lavora sulla ricezione delle variazioni comportamentali minime. Procede così a comporre una sintassi filmica estremamente controllata entro la quale non c’è spazio per la detonazione del dramma, per i disastri eclatanti propri di una filmografia del contagio; tutto tace in vista e in virtù del lento e silenzioso processo con cui Alice comprende la portata dei propri errori. E se anche la protagonista finisce per ravvedersi, cosciente del rischio in potenza degli effetti collaterali del virus, il suo tentativo (affatto insidioso) di annullare la commercializzazione del fiore sembra rispondere alla sola emergenza personale di salvare il figlio. Tutto è da ricondurre, quindi, alla riappropriazione di un affetto nel proprio spazio domestico. La stessa configurazione espressiva del contagio può essere riletta in termini psicanalitici: il male procurato dal virus consiste in una felicità intaccabile, un benessere devoto in cui il fiore Little Joe diviene il partner di un amore sconfinato e sottilmente tirannico. È impercettibile la variazione prodotta dall’infezione, se appunto l’effetto è quello apparente di una mera seduzione. Le vittime del polline sono quasi irriconoscibili nell’ambiente asettico del laboratorio, in quanto già dapprima impegnate in un’indefessa venerazione del fiore. L’invisibilità del nemico crea lentamente adepti nello spazio laboratoriale, riducendo il campo d’azione di Alice senza che questa possa accertarsi del proprio effettivo isolamento.
Fuori da ogni retorica dello sbalordimento, la regista austriaca demanda allo spettatore il compito di discernere immagini dai significati opachi. È certo che il male esista; ma è reale la minaccia? Persino il procedimento del contagio ha la forma singolare di un gesto delicato come quello dello sbuffo rosa dell’impollinazione. In Lourdes era la guarigione miracolosa di una donna dalla paralisi a sostenere la possibilità d’un agire divino, ma una ricaduta fisica conclusiva sottraeva ogni possibilità di chiarimento. Nel suo film successivo, Amour Fou (2014), dramma ottocentesco che mostra la povera Henrietta in dubbio sul togliersi la vita con il povero poeta von Kleist, non si distingueva la natura tumorale da quella solo spirituale del male invisibile che l’affliggeva. Il medesimo principio sostiene Little Joe nell’impollinazione subdola del veleno: come nei titoli precedenti, un qualche elemento sospende l’incredulità narrativa e sottrae le evidenze della comprensione.
Come accade nelle opere precedenti, anche le immagini di Little Joe sono estremamente complesse da indagare. Immagini in cui il nucleo di significazioni non è immediatamente esplicitabile, al di là dell’impeccabile pulizia visiva che collauda lo spazio entro cui il virus soffia, esito della fotografia di Martin Gschlacht (collaboratore di lunga data della Hausner). Anzi, verrebbe da dire che tale pulizia si rende necessaria in vista di questa rilevazione della complessità delle immagini. Dove in Amour Fou il lavoro certosino era sulla riempitura degli spazi secondo un’impostazione pittorica altamente studiata, qui l’inquadratura dà visibilità a un’inquietudine che serpeggia lungo i corridoi spigolosi del laboratorio. È assolutamente sterile l’ambiente, tanto per gli innumerevoli sistemi di igienizzazione che lo mappano, quanto per la condizione interna che sottrae ogni carica emotiva tra Alice e i suoi colleghi. Il calore dovrebbe allora annidarsi nella dominante magenta e nell’intero spettro dei colori che copre la dimora domestica; ma il piccolo esemplare di Little Joe nella stanza del figlio, illuminato da una specie di aureola divina, pare che ne abbia cancellato i residui. In tale contesto, nonostante il sistema sonoro chiarisca il carattere di genere del film col suo tambureggiare tribale e coi ronzii che irrompono in un gracchiare sordo, ogni possibilità orrorifica resta disattesa. La Hausner ci dice che modi complessi di intendere i demoni della mente umana nel Cinema possono essere ancora pensati. Il male ha mutato forma, soffia nuvole rosa lungo le narici e dentro il cranio, ed è fecondo dell’amore per un fiore.