No Time to Die
Si conclude la storicizzazione del mito postmoderno, l'ultimo film di Bond-Craig chiude un arco narrativo che per riflessione simbolica, storica e linguistica non ha pari nell’immaginario pop contemporaneo.
Ecco una facile scommessa. Prendiamo i cinque film Bond dell’era Craig e diamoli in pasto a un’analisi stilometrica, a un algoritmo capace di restituire e rapportare il peso numerico di vari elementi stilistici, in questo caso lessicali. Per confrontare quante volte, nei film dedicati all’ultima incarnazione bondiana, l’agente segreto più famoso del mondo viene nominato 007 e quante volte James Bond, o, meglio ancora, semplicemente James. Il giochino è facile e la risposta non richiede veramente calcoli ma solo occhi per guardare: No Time to Die è un film di James Bond prima di 007, come e più dei precedenti, perché è di questo personaggio, di quest’incarnazione specifica, di questa storia e drammi e cicatrici ed errori che si vuole raccontare. E lo si fa, anzitutto, attraverso il corpo del suo attore, una superficie non intercambiabile anzi significante proprio per la sua specificità, per il suo irrigidirsi, disfarsi, invecchiare.
Uno scarto notevole per quella che è forse la saga cinematografica per eccellenza, 25 pellicole disposte lungo 60 anni di cinema e società in trasformazione radicale, come un diorama mobile nel quale elementi canonici dialogano – tra apertura e resistenza – con un panorama che risponde alle evoluzioni industriali, socioculturali e simboliche dell’immagine e del suo rapporto col reale. Rapporto che a lungo è stato fatto di sublimazione, desiderio, mistificazione, processi libidici incarnati da un personaggio immortale capace come pochi di catalizzare su di sé sguardi adoranti (dentro e fuori dallo schermo) nel definire mode, atteggiamenti, immaginari. Ma, appunto, quello era 007, eroe postmoderno per eccellenza, privo di passato e futuro, giovinezza o vecchiaia, immune al tempo. Dal magnifico Casinò Royale invece ci troviamo di fronte James Bond, o solo James, che non è soltanto un aggiornamento muscolare e post 11 settembre dell’agente inglese al servizio segreto di Sua Maestà; la versione Craig è un personaggio profondamente riscritto secondo le logiche seriali contemporanee, attraverso le quali la saga dialoga – necessariamente – con l’imprinting action tracciato dai film Bourne e il respiro globalizzato, frammentato e permanentemente inquieto proprio di quel paradigma neo-moderno che in qualche modo definisce e accompagna questi anni digitali, dove l’identità si dissolve nel pulviscolo dell’informazione e comunque, necessariamente, si deve prendere posizione, si deve adottare un punto di vista sul mondo.
E il James di Daniel Craig un punto di vista lo ha eccome ed è quello fornito dal tempo, sostanza finora assente nella saga – perché antitesi del mito, che per definizione sopravvive al tempo essendone immune, non ne viene scalfito o influenzato, in quanto fortezza simbolica di ciò che resta – che qui diventa la conditio sine qua non di tutto l’arco narrativo, il suo principio chiave: James nasce, cresce, perde genitori e cambia famiglia, affrontando solitudini e traumi su cui forgia una corazza; da lì ama, perde, viene tradito, diventa abusato e abusante, confrontandosi costantemente – dentro e fuori l’immagine, tra accessori hi-tech, catchphrases e pose plastiche – con quell’atemporalità sacrale che prima ne definiva l’identità e oggi fatica a imporsi in uno scenario iconico mutato.
Il risultato è stata una saga sì a fasi alterne, incapace di chiudere in capitoli finiti i propri archi narrativi esponendosi a ridondanze, sfilacciamenti, ripetizioni di situazioni conflittuali che sul piano simbolico e mitico erano state già ampiamente affrontate e brillantemente risolte, ma anche unica per potenza e perspicacia nel dire qualcosa di vero sul mondo, sfruttando il punto di partenza privilegiato della storicizzazione del mito postmoderno.
Un processo questo che ha a che fare con i modi nuovi – seriali, digitali, frammentati – che abbiamo di percepire lo spazio-tempo che ci circonda, strumenti gnoseologici non più assoluti (come nel modernismo novecentesco) o puramente astratti (come nella decostruzione discorsiva del postmoderno) bensì relativi e comunque fattuali, attanti, nuovamente incandescenti e volubili, e proprio nella loro fallibilità, nella loro vulnerabilità al tempo e al cambiamento, guida necessaria alla proliferazione di segnali che tutto disgrega. Di qui l'andamento del Bond contemporaneo, un personaggio nato e cullato nelle spire del postmoderno e adesso strappato a quel movimento eterno – falso e confortevole in quanto a-dimensionale nei suoi periodici reset, incapace di andare veramente a parare da qualche parte che sia definitiva – da una riscrittura neo-moderna che lo costringe ad assumere un significato denso aggiornando il suo rapporto con il reale: adesso incerto, trasformativo, sofferente in forme meno plastiche e più tradizionalmente drammatiche. Non a caso il fil rouge stilistico della saga è il feuilleton ottocentesco, il melò straziante che impone sacrificio, decessi, addii, mentre l’approccio strutturale è quello della serialità contemporanea, la trama orizzontale organizzata per stagioni che è figlia proprio del romanzo d’appendice e che definisce oggi, più di ogni altro paradigma, il consumo culturale audiovisivo.
Adottando questa prospettiva non spariscono certo gli errori e le imprecisioni di questo No Time to Die, diretto dal seriale Fukunaga che, con professionismo anodino e altalenante, si muove tra forti momenti grafici, magnifici tramonti melò e reinvenzioni che chiudono con gli aspetti più imbolsiti e invecchiati del vecchio Novecento – cercando nuovi equilibri gender con molta programmaticità e poca efficacia (l’inconsistenza narrativa e drammatica della nuova 007). Ma tutto questo conta poco perché No Time to Die è anzitutto l’esito di un arco narrativo che per riflessione simbolica, storica e linguistica non ha pari nell’immaginario pop contemporaneo. È il tempo liberato dalle sue catene, il ritorno a un sentire moderno che rompe col precedente paradigma culturale riportando in campo l’importanza e il ruolo della sofferenza, dell’intensità emotiva e della metacognizione. Anche James Bond, nel suo scegliere e prendere posizione, diventa un gesto di resistenza, un voto contrario a quella versione del reale per cui il contemporaneo non sarebbe altro che una liquidità eterna e orizzontale, popolata da frammenti intercambiabili di senso mai compiuto.