I figli del fiume giallo
L'ultima opera di Jia Zhangke è un viaggio nella storia della Cina e lo straordinario ritratto di una donna che la attraversa.
I figli del fiume giallo (altrimenti noto con il titolo internazionale Ash Is Purest White) è un oggetto misterioso, un UFO che dispiega una capacità di immaginazione e creazione sconfinata. Una storia d'amore, una rapsodia della Cina in perenne mutamento, un potentissimo ritratto di donna: Jia Zhangke riflette sul proprio cinema e lo ricompone in un mondo nuovo.
Zhao Qiao (Zhao Tao) e Guo Bin (Liao Fan) sono una coppia influente nel modesto sottobosco criminale di Datong: bische clandestine, sale da ballo e pistole nella borsa, la cui messa in scena ci riporta direttamente agli anni d'oro del cinema di Hong Kong. Nel mezzo di una sanguinosa lotta di potere, Qiao è costretta a estrarre la pistola di Bin per mettere in fuga una banda rivale e salvare la vita del suo compagno. Sacrificandosi per onore e per amore, sconta cinque anni di prigione al posto di Guo. Al suo ritorno, la donna si mette alla ricerca del compagno che, nel frattempo, si è fatto una nuova vita.
I figli del fiume giallo comincia come un dramma criminale: la camera accompagna una femme fatale di provincia mentre cammina, sicura, verso la corte del suo amante: tessere di Mah Jong e volute di fumo, sguardi gelidi. La violenza esplode senza preavviso e senza spiegazioni. Quando Guo e Qiao, sicuri di se stessi e affascinanti, perdono il controllo del loro piccolo mondo, cambia anche la voce del regista.
Jia non esita ad alternare riprese in analogico e in digitale, o a cambiare tempo e voce della narrazione passando dal noir al thriller, dal dramma al documentario. Mentre la parabola della coppia si dipana e il loro ambiguo legame attraversa due decenni, ritroviamo le tracce di Still Life e Unknown Pleasures, così come gli scorci urbani di 24 City o I wish I knew. Da "donna del capo", Qiao diventa una prigioniera e una vagabonda. Il suo sguardo si abbassa, ma non la sua forza. Sola, cerca di sopravvivere a un mondo che è andato avanti senza di lei e che è, irrimediabilmente, tragicamente, patriarcale. Perde tutto e ricomincia da zero; nel suo vagare per la Cina (è questo uno dei significati dell'espressione jianghu, che troviamo nel titolo cinese del film) viaggia fino alla nuova frontiera, lo Xinjiang, per ritrovare un nuovo e precario equilibrio.
I figli del fiume giallo è, prima di tutto, una dolorosa riflessione sul tempo. Tempo che trasforma le relazioni, ribalta i rapporti di potere, consuma le energie esuberanti della giovinezza in silenziose rassegnazioni e compassioni. Nessuno mette in scena lo scorrere del tempo come Jia Zhangke: l'autore si immerge in ciascuno dei tre atti in cui è scandita la storia (2001, 2006 e 2018) e ne scatta una fotografia minuziosa che include i luoghi, i fenomeni di costume e, soprattutto, i suoi personaggi. Cattura, grazie al potere del cinema, l'epifania del passaggio inesorabile del tempo: i telefonini si fanno smart e cambiano le canzoni alla radio. Si scopre, all'improvviso, di essere diventati vecchi. E, forse, di commettere gli stessi errori di sempre.
Zhao Tao è ancora una volta la protagonista, rinnovata declinazione di un archetipo di donna, testimone e sopravvissuta. Zhao reinterpreta i suoi vecchi personaggi e torna negli stessi luoghi di sempre (Datong, Fengjie, le metropoli globalizzate della nuova Cina): sembra che Jia voglia riflettere sul proprio cinema e domandarsi se e come sia possibile cambiare, tornare su bivi ormai risolti del passato. I figli del fiume giallo è un film territoriale, famigliare, fatto di tasselli e parole che l'autore ha lungamente definito, film dopo film, e che qui ricompone in un esercizio di composizione straordinariamente ricco e complesso.
Questo film è anche una storia d'amore. Un amore tossico e asimmetrico che vive di contraddizioni e arcaici codici d'onore. Qiao non recide mai il legame, non tradisce mai questo codice che oscilla tra il criminale e il romantico. E qui torniamo al jianghu nel suo significato più pieno: fiumi e laghi, ovvero vagabondare al di fuori dei rigidi confini della civiltà, o della razionalità utilitaristica che cinge d'assedio la protagonista. Jianghu è controcultura, è ribellione, è il rifiuto dell'amnesia storica e politica, della legge del Potere e del capitale. Jia sembra suggerirci che solo i brigantes e gli (anti)eroi possono resistere alle mareggiate del potere e della sfrenata ambizione capitalista a cui cedono, uno per uno, tutti gli uomini.