The Eternal Daughter
Magistrale esempio di cinema eerie, in cui la riflessione sul potere dell'immagine di risemantizzare lo spazio dialoga con l'esplorazione dolente di un rapporto famigliare costruito sulla necessità di rigenerare la memoria.
Tra i processi che accomunano il cinema e la memoria vi è la capacità di entrambi di risemantizzare lo spazio. Quando un’immagine o un ricordo abitano un luogo lo infestano, trasfigurano, ridisegnandone significati precedenti e donandone di nuovi. Il cinema si impossessa degli spazi in cui si manifesta, li fa propri; la memoria modifica la percezione del luogo esperito, lo soggettivizza. Chi ha vissuto o guardato uno spazio nel suo tornare a quel luogo non sarà più lo stesso, e forse neanche al sicuro: «l’eerie è costituito da un fallimento di assenza o un fallimento di presenza. La sensazione di eerie si verifica quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, o quando non c’è niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa» [Mark Fisher].
Possiamo chiamare cinema eerie, quindi, quello in cui immagine-memoria-spazio prendono parte allo stesso grumo, falliscono assieme nei rapporti di presenza e assenza: sono luoghi su schermo che richiamano le memorie fisiche del singolo e quelle immaginarie del gruppo, affinché si possa subirle come fantasmi o magari custodirle come verità rivelate. La Dead Valley. Via Veneto. Times Square. Overlook Hotel: redrum, redrum, MURDER.
Che poco conti la distinzione, nel cinema eerie, tra luoghi generati dalla fisica o dal cinema, lo dimostra The Eternal Daughter, ennesimo film in cui il catalizzatore memoriale di un evento traumatico viene individuato in un luogo abitato dal fantasma cinematografico dell’Overlook Hotel. Non siamo mai usciti da Shining: che si tratti del reenactment di Doctor Sleep, della riscrittura digitale di Ready Player One, il video-saggio Room 237 o i primi video di deepfake, con Jack Nicholson trasfigurato in Jim Carrey, quello di Kubrick è ancora oggi lo spazio per eccellenza in cui l’immagine dimostra di riscrivere il reale, farlo proprio propagando significato.
Ambientato in un resort d’epoca sepolto nella campagna scozzese, tra alberi scheletrici, fitta bruma e perenni gocciolii d’umidità sui prati e le finestre, il film di Joanna Hogg prende spunto da un racconto di fantasmi scritto da Kipling, Loro, nel quale lo scrittore elabora la morte della figlia immaginando un personaggio smarrirsi in una dimora isolata e abitata da personaggi serafici incarnanti memorie perdute. Per Hogg invece il viaggio riguarda madre e figlia, e il loro è un ritorno alla vecchia casa di famiglia, divenuta appunto resort, con l’obiettivo di liberare i ricordi incastonati in quello spazio.
Data l’impostazione da cinema di genere, Hogg gira un racconto di fantasmi all’inglese dalla fattura impeccabile, rigoroso ed estremamente efficace nelle sue soluzioni espressive, figlio del miglior gotico cinematografico e letterario, dalle immagini di Jack Clayton ai racconti di Robert Aickman. Ma se è di cinema eerie che si tratta, e di spazi cinematografici che ritornano come fantasmi carichi di senso, è perché Hogg ambienta il film in un Overlook Hotel virato al gotico, evidente nelle architetture e atmosfere, con tanto di custode di colore dalla saggezza preziosa. E la riconfigurazione non finisce qui: la camera in cui alloggiano madre e figlia non ha un numero ma un nome proprio, e quel nome è Rosebud, il meno casuale nella storia del cinema. Rosebud è il ricordo, la scheggia di memoria sepolta nel castello di Xanadu infestato dal passato, l’unico elemento in grado di sciogliere l’enigma e avvicinare la verità. E ancora, Psyco, il doppio, perché madre e figlia sono entrambe interpretate da Tilda Swinton, e la regia di Hogg intrappola i due personaggi, versione invecchiata e al naturale dell’attrice, in un regime di campo-controcampo dai confini ben delineati, per il quale non vi è mai contatto tra i due personaggi, nessun avvicinamento, nessuna condivisione dell’inquadratura, solo raccordi di sguardo che non presuppongono nessuna continuità di spazio-tempo e anzi insinuano il sospetto di una costante frattura. Un passo a due in cui il fallimento di presenze e assenze si manifesta in tanti piccoli “errori” di montaggio e continuità, tra azioni ripetute, personaggi dalle posizioni invertite, dislocazioni spaziali di piccoli oggetti, manifestazioni eerie attraverso le quali il film esplora il rapporto tra immagine-memoria-spazio, le mille infiltrazioni e sovrapposizioni, il progressivo avvicinarsi nell’elaborazione del trauma, verso il momento in cui il cinema permette la sintesi tra i due opposti, l’avvenire del contatto impossibile.
Poteva essere un’opera rigidamente cerebrale, The Eternal Daughter, un meccanismo arido e formalmente imbalsamato, congelato nell’ambra della cinefilia più intellettuale, ma questo non accade, il film si dispiega di fronte allo spettatore, lo attira al suo interno in termini di spazio e poi lo ingaggia sul piano del significato, offrendo terreni di interpretazione senza schemi esatti, lontani dalle griglie di senso conclusa in sé stesse. Inoltre, ad animare il cortocircuito spaziale tra immaginario e memoria vi è un rapporto famigliare esplorato con estrema sincerità ed efficacia; come nel dittico The Souvenir, Hogg mescola scrittura e impulso autobiografico, crea una sua alter ego e rilancia in abisso i livelli di rappresentazione, traendone un’emulsione con la quale affondare nel profondo della relazione messa in scena, dentro le intercapedini più dolorose e le piccole ossessioni.
C’è una frase, di David Foster Wallace, che è facile citare ed è facile veder citata. Cediamo alla tentazione: «ogni storia d’amore è una storia di fantasmi». Specie in un cinema eerie, dove il gioco di assenze e presenze ricostruisce in forma complessa e perturbante i legami basilari dell’umano. Filiazioni e genitorialità. Questione di spazi e di spettri.