The Old Oak
Fotografare la realtà, ma attraverso il filtro della speranza e della forza. Ne abbiamo bisogno? Sì, ci potete giurare. Benvenuta semplicità, bentornato Mr. Loach.
Può un critico deporre, anche se solo temporaneamente, le armi dell'analisi, gli strumenti dell'osservazione che necessiterebbero di porsi a una certa distanza dall'opera, nel momento in cui è chiamato ad analizzare un film e il suo autore?
Non sappiamo se può, ma di certo non ha scelta di fronte all'ultima regia di Ken Loach: The Old Oak. Perché, come dice il personaggio di Yara, vero alter ego del regista, quando hai visto tante cose che avresti voluto non vedere, tali da non avere parole per descriverle, se le guardi attraverso la camera scegli di scorgere un po' di speranza e un po' di forza.
Così fa Ken Loach, opera una scelta: fotografare sì una realtà, ma attraverso il filtro della speranza e della forza. Azzera il distacco tra soggetto e oggetto dello sguardo, caratteristica ricorrente dei suoi lavori, ma stavolta colma l’immagine di empatia e comprensione. Ne abbiamo bisogno? Sì, ci potete giurare.
Ci sono al mondo già così tanta rabbia, sconforto, sfiducia e pessimismo (sentimenti che anche l'ottantasettenne regista britannico non manca di manifestare: Sorry, We Missed You non si può certo definire una favola) che The Old Oak è l'abbraccio di cui tutti abbiamo bisogno, la carezza che può rendere meno gravoso il peso di una vita difficile (che si sia profughi in fuga da una guerra o cittadini dimenticati dalle istituzioni), la mano tesa agli ultimi, un gesto che in molti abbiamo dimenticato. Loach, infatti, non ce l'ha con nessuno: tutti i suoi personaggi sono vittime, anche quelli che tramano contro TJ Ballantyne che, in fondo, è un po' come il Jimmy Gralton di Jimmy's Hall – Una storia di amore e libertà (e l'Old Oak è un po' come la sua Pearse-Connolly Hall). I cattivi, da sempre, sono il potere, il capitalismo e il liberismo sfrenato che stritolano gli individui e fanno perdere il senso di comunità. E questo senso di comunità è ciò che The Old Oak mette al centro del film.
When You Eat Together, You Stick Together: sono i pranzi e le cene sociali in cui ognuno scopre di aver bisogno dell'altro, cessa di vergognarsi della sua condizione e di invidiare persino chi magari riceve una bicicletta di seconda mano e degli abiti dismessi. Ma anche il cinema come momento di condivisione fa la sua parte: la proiezione delle fotografie di Yara cui assistono gli abitanti di Durham è un momento fondamentale in cui tutti si rispecchiano in quello che vedono sullo schermo, si vedono e si riconoscono uguali, inglesi e stranieri.
C'è poco da fare, si esce dalla visione di The Old Oak con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, non si riesce a essere obiettivi, ma è anche bello, occasionalmente, lasciarsi andare, come Anton Ego di fronte a una ratatouille, invece che mostrarsi professionali sì, ma anche “aridi” come gli inviati dei Cahiers du cinéma a Cannes (Olivia Cooper-Hadjian, Charlotte Garson, Alice Leroy, Thierry Méranger gli hanno affibbiato da un pallino nero a due stelle su quattro), che rimproverano a Loach un certo schematismo nella messa in scena e lo scarso approfondimento psicologico, compreso quello dei due protagonisti, che sarebbero più funzioni agenti in un meccanismo preordinato che veri e propri personaggi. Insomma la semplificazione di situazioni più complesse. Ma forse è giunto il momento di pensare che di fronte alla fame, alla guerra, alla morte, la complessità sia l'alibi del potere. Benvenuta semplicità, bentornato Mr. Loach.
Se sarà il suo ultimo film, avrà lasciato un'eredità di impegno e coerenza più unica che rara. Perché, se è vero che spesso ci siamo trovati ad affermare che alcune sue opere siano più necessarie che belle, nel caso di The Old Oak occorre avere il coraggio di affermare il contrario, che il film è bello, e tanto, proprio perché necessario. Pertanto shukran, Yara, e shukran TJ. Ma soprattutto, shukran Ken Loach.