Sorry We Missed You
L'ultimo film di Ken Loach è una denuncia frotale dell'inferno dei corrieri freelance e della disgregazione cui sono spesso soggette le loro famiglie.
Il meccanismo della gig economy sta consolidando modalità di sfruttamento del lavoro tanto più efficaci e pervasive quanto sorrette da un’illusione di fondo. In sostanza, far credere ai freelance, presi tra le maglie di un impiego a chiamata, di essere padroni del proprio tempo e della “propria attività”. Trattarli da imprenditori di sé stessi per avere a disposizione manovalanza dalle tutele ridotte. L’effetto è un precariato che si cristallizza in forme aggiornate di vessazione del lavoratore, costretto per disperazione a un’occupazione solo apparentemente autonoma e in realtà schiava dei ritmi insostenibili del mercato digitale, dove un barcode scanner può decidere “della vita e della morte” di un fattorino. «Non lavori per noi, ma lavori con noi. Non vieni assunto, ma vieni integrato» spiega infatti con raffinato gusto per la strumentalizzazione lo spietato Gavin Maloney al fattorino Ricky Turner (Kris Hitchen) in Sorry We Missed You di Ken Loach.
Rick vive con la moglie Abbie (Debbie Honeywood) e i due figli a Newcastle, felici per quanto in ristrettezze economiche. Quando però la famiglia capisce che non avrà mai una casa di proprietà, Abbie vende l’automobile per permettere al marito di comprare un furgone e diventare un trasportatore. Inizia dunque il calvario dell’uomo in un sistema logorante che sotto l’egida del profitto a ogni costo e della presunta autonomia del lavoratore costringe Rick a orari massacranti, corse forsennate e a dover risarcire la società «con cui» lavora solo per aver chiesto un giorno di permesso. Tutto ciò con ripercussioni all’interno della famiglia, compromessa inoltre dal lavoro di Abbie, infermiera a domicilio pagata a visite. Una delle conquiste del neoliberismo più intransigente non sta solo nello svalutare il tempo libero dell’individuo, misurandolo in termini economici, ma nel farci credere che questo sia normale. Loach lo ha capito bene e non ci sono dubbi sull’importanza della causa condotta in Sorry We Missed You, con l’asciuttezza linguistica e la tenacia ideologica del suo cinema, qui ridotto a una elementarità espressiva come forse mai prima d’ora. Ed è del resto perfettamente comprensibile la tensione alla formula del comizio politico, il ricorso a una frontalità settaria, soprattutto intorno a un tema così urgente e in parte ignorato anche perché manifestazione di un sottofenomeno recente e ancora in via di trasformazione.
I problemi insorgono piuttosto quando Loach e il fedele Paul Laverty affrontano gli effetti prodotti sul nucleo famigliare dalla situazione di precarietà di Rick ed Abbie. Sacrificate da una scrittura affrettata, incapace di prendersi il tempo necessario per esplorare con progressione i nessi di causa ed effetto, le dinamiche familiari – in particolare il rapporto padre/figlio – rischiano l’effetto bozzettistico. Lo sguardo gettato sulle relazioni interne tra genitori e figli sembra correre troppo velocemente verso quelle conclusioni stabilite programmaticamente, come preso dalla stessa frenesia del corriere protagonista, senza dare del tutto consistenza al dramma della disgregazione familiare. Purtroppo, anche il parossismo con cui Loach e Laverty affastellano una sequela di disavventure dagli esiti via via più disastrosi ai danni di Rick lede al realismo che, al contrario, l’approccio adottato vorrebbe perseguire. Manca insomma l’equilibrio del precedente Io, Daniel Blake.
Loach ci consegna con trasporto una vicenda umana terribile, resa ancora più tale proprio in assenza di un vero evento tragico. Perché è nella corruzione del quotidiano a beneficio delle logiche di consumo, nell’accettazione remissiva di ciò che invece dovrebbe essere inaccettabile che risiede il cuore del film ed lì che implode il suo dramma. Se il finale di Sorry We Missed You non ha la forza di salvare in toto un film claudicante, certo ha quantomeno il vigore, con quella troncatura traumatica, di metterci di fronte senza filtri a ciò in cui la nostra società ci sta trasformando. Di costringerci a riflettere su quello a cui molte persone stanno accettando di rinunciare.