EROTIC THRILLS - Whore

di Ken Russell

All'alba degli anni '90 Ken Russell saluta e lascia il cinema, con un epilogo che è manifesto e negazione del nuovo softcore americano.

Whore recensione film Ken Russell

[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Whore è il film della pacificazione di un grande vecchio, un folle gaudente che per l'ultima volta, a quasi settant'anni, si fa (semi)serio nel ripensare la violenza del proprio cinema. Nel piccolo testamento che Ken Russell dedica al tema della perdizione sessuale (dopo la musica, quello più importante), è la realtà che torna, dopo decenni, a infettare il delirio: la sfarzosa, teatrale follia che da sempre ha definito l'esperienza umana nell'arte del regista svanisce, svapora nelle luci al neon. Ormai sul punto di finire messo da parte dall'industria britannica (il pur microscopico film sarà girato in America), nel 1991 Russell riscopre il realismo, l'inchiesta, e dunque la verità – ciò che da sempre pareva bandito dalla sua poetica. Un processo distensivo già avviato in seguito al flop di China Blue, con la conseguente riscoperta della narrativa britannica classica (Lawrence in La vita è un arcobaleno, Wilde in Salomè, Stoker in La tana del serpente bianco) – e compiuto ufficialmente nell'adattamento di Bondage, monologo teatrale redatto dal tassista notturno David Hines assieme alle prostitute londinesi da lui intervistate nel corso degli anni. Il film avrebbe segnato il punto di arrivo in una carriera incasellabile, tra la BBC, l'Opera e il documentario, nella quale il cinema non rappresentò che un dispendioso vezzo; ossessione serenamente messa da parte con l'ennesimo insuccesso, in favore di una vecchiaia di mediometraggi e autoproduzione.

In rapporto al suo tempo Whore era effettivamente un film condannato. Dal soggetto alla visione alla modalità del racconto, tutto risulta anacronistico allo zeitgiest del periodo – rappresentato dalla fiorente ondata di softcore mainstream sorta a metà anni '80 in scia ad Adrian Lyne e Lawrence Kasdan. Il nuovo noir erotico hollywoodiano è in effetti rivelatorio di un'avvenuta inversione di tendenza: due decenni dopo l'era dei diritti civili, la visione egemonica della sessualità appare ribaltata. Influenzata dalle frange reaganiane e reazionarie del movimento femminista americano (rispecchiate dalle posizioni proibizioniste di Andrea Dworkin e Catharine MacKinnon, come dal discusso movimento Women Against Pornography), la weltanschauung USA degli eighties è improntata alla condanna unilaterale delle attività sessuali “devianti” - BDSM, esibizionismo e prostituzione in primis.
Rispetto all'era d'esordio di Russell, alla fine degli anni ottanta l'erotismo cinematografico è mortifero, castrante, veicolo di psicosi omicide, impulso sordido in grado di distruggere le vite ai personaggi colpevoli di “andare oltre”. Coniugatasi con l'inedita ossessione dei media per la figura del serial killer, la nuova narrativa ricorda una sorta di versione yuppie delle vecchie paranoie borghesi di fine Sessanta, ai tempi sardonicamente monetizzate dal Giallo italiano. Il mondo filmico con cui si confronta l'ultimo film di Ken Russell è un inferno metropolitano popolato dai Patrick Bateman e le Alex Forrest del mondo: una visione che il film prova a ribaltare, reintroducendo nel discorso la voce soppressa delle comparse, e dunque delle vittime.

whore russell

Il primo flashback con cui Liz (Theresa Russell) apre la scombinata biografia della sua breve vita è il più brutale e programmatico del film: in fuga dallo sfruttatore Benjamin Mouton, la donna rievoca una delle sue prime notti in strada, degenerata nello stupro di gruppo a opera di una banda di psicopatici frat boys. È il punto di partenza di un monologo interiore picaresco e tragicomico, lungo il quale la voce della protagonista prova rozzamente a tracciare le coordinate sociali e psicologiche della sua professione nell'era del libero mercato. Un discorso volutamente schizofrenico, frutto di un'inchiesta collettiva in cui centinaia di voci ed esperienze prendono parola; come ragionando con se stesse, la protagonista e la cinepresa vagano da una scena all'altra, da un set all'altro, da un film all'altro, in cerca di una sfuggente chiave di lettura universale al fenomeno. Le interpretazioni dogmatiche si accavallano e si contraddicono a vicenda: le conclusioni sono liberali o radicali assieme. Non c'è un punto di vista (Russell riderebbe a definirsi regista impegnato), se non nell'inquadrare la radice dello sfruttamento nel mancato riconoscimento sociale, e nel ruolo che la demonizzazione mediatica della professione ha nel lasciarne il dominio in mano alle creature più mostruose del già pregno campionario di mostri russeliano.

Il rivolgersi di Whore a questo rimosso è anche un ritorno a un cinema che, nei nascenti anni '90, andava ormai facendosi relitto del passato, recuperabile giusto in chiave postmodernista; quello del realismo sociale, precisamente nella declinazione tutta britannica del kitchen sink realism. Proprio quella leggendaria e spesso obliata corrente della cinematografia inglese, legatissima all'anima social-laburista del vecchio free cinema, che per anni aveva visto in Russell stesso una sorta di demone, decadente artistoide aristocratico in scia al formalismo felliniano più deleterio – sprezzo peraltro ricambiato dallo stesso regista, fieramente di sistema, professionista BBC su drammi in costume e biografie di compositori.
L'iperrealismo militante britannico incrocia il softcore nel momento di maggior riflusso per i valori di entrambi; il risultato della commistione è il bellissimo film di un vecchio hippie in disarmo, meravigliosamente fuori contesto, parodia feroce del proprio dibattito istituzionalizzato che si rifiuta di prendere veramente sul serio la sua stessa anima indignata. È un cinema-verità da cui la verità è esclusa, manipolata e riprodotta, come sempre, nella forma della follia; un documento sociale che di documentaristico non ha niente - se non una confusa testimonianza, riportata come lo farebbero i suoi stessi protagonisti. È contenuto, minimale, per quanto lo possa essere Russell: ma è soprattutto, per una volta, assolutorio nei confronti dei suoi grotteschi personaggi, che strabordano dal grigio della docufiction invadendola di colori aggressivi, e parlando, come al solito, la lingua dello sporco, del vomito, della carne squarciata dal delirio universale.

Autore: Saverio Felici
Pubblicato il 11/03/2021
USA 1991
Regia: Ken Russell
Durata: 85 minuti

Articoli correlati

Ultimi della categoria