The Knick 2x06 - There Are Rules
L’illusione dura giusto il tempo dello spettacolo, fallendo la prova generale, la verifica incerta della prassi scientifica. Restano le scorie, le ferite, le cicatrici.
Ci vorrebbe una magia o forse anche solo una banale trovata da circo per illudersi che tutto in fondo andrà bene, che i tumori possono essere curati, le dipendenze superate. Tornare a vedere come un tempo. Cancellare il senso di colpa attraverso l’amore. Quando la medicina non basta più o mostra tutti i suoi limiti, ecco che arriva lo spettacolo, la fiera, antenato per eccellenza del cinema, ben più della fotografia, a colmare momentaneamente il vuoto di senso che ci inghiotte, mostrando vie alternative, altre prospettive dalle quali guardare (al)le cose. L’ipnosi, ad esempio, come perdita di controllo, desiderio di abbandono. Verrebbe voglia di lasciarsi guidare dalle parole dell’imbroglione di turno, addormentarsi dolcemente mentre il mondo va avanti e trova soluzioni al posto nostro. In questa sorprendente sesta puntata di The Knick, There Are Rules, l’occhio dell’illusionista ricambia lo sguardo dell’istanza narrante come a voler iscrivere l’episodio nel segno dell’artificio, di un sentire che scavalchi la ragione e con essa le porte della percezione.
Se dovessimo individuare un motivo ricorrente nella seconda stagione, questo andrebbe rintracciato non più nel perimetro del teatro, nel set, nell’esibizione, nell’evidenza pornografica del corpo, ma piuttosto dall’altra parte del campo, nell’occhio ferito di Algie, nella visione sempre più faticosa (e terminale) di un organo che si rifiuta di guardare la barbarie, l’abisso morale nel quale sta precipitando l’umanità occidentale. L’eugenetica, lo scontro razziale, la peste, la corruzione, il colonialismo, la guerra, che nel decennio successivo riscriverà le sorti di milioni di persone e i confini di una parte consistente di mondo. Bel paradosso per un secolo segnato dalla diffusione del cinema, dall’occhio della macchina da presa. Chissà, forse in fondo Soderbergh sembra dirci proprio questo, ovvero che al di là di tutto, l’uomo ha inventato il cinema non per vedere di più e meglio, ma per delegare ad una macchina il compito di assistere alle immani tragedie del proprio tempo, come se da solo non ce la facesse, come se il suo sguardo non fosse (più) sufficiente a contenere e guardare in faccia l’orrore. Naturalmente la patologia di Algie potrebbe rivelare anche un difetto congenito, un’incapacità diffusa di anticipare e correggere le deviazioni della Storia nel momento in cui si producono. Lo riprova la sua assurda proposta dell’operazione, idealista nello spirito ma potenzialmente nefasta negli esiti.
Ad ogni modo, l’illusione dura giusto il tempo dello spettacolo, fallendo la prova generale, la verifica incerta della prassi scientifica. Restano le scorie, le ferite, le cicatrici di chi provando l’impossibile perde tutto o quasi. Mentre altre cicatrici rimangono scolpite sul volto del proprio amore (più o meno occultate dal processo riabilitativo), oppure sono promesse da chi vorrebbe separare ciò che è unito sin dalla nascita. Neanche il sogno, allarmato da una scena ricorrente e sempre più perturbante, che restituisce l’idea di una deriva inesorabile, può nulla nel disordine e nel caos. Tutto sembra indirizzarsi verso la morte. Si salvi chi può (la vita).