Varsavia, 1943. Elżbieta, una bambina ebrea, ha bisogno di due padrini di battesimo, affinché possa essere ospitata da una famiglia cattolica e salvarsi la vita. Ma, all’ultimo momento, i due coniugi che avrebbero dovuta battezzarla si rifiutano: non possono mentire davanti a Dio.
Ma può mai, davvero, essere questo il dio kieślowskiano del Decalogo, entità astratta e imperscrutabile, che si risolve in dogma e interdizione? Oppure la falsa testimonianza del titolo è un pretesto per mettere in scena una vicenda che si dipana su un piano essenzialmente umano, che prescinde dal rapporto con il divino? Il regista lascia in sospeso la domanda per poi sciogliere lentamente il nodo della questione. Altra è la verità. La ragione del rifiuto sta infatti in una dimensione tutta contingente, immanente, storica. C’è il rischio che la Gestapo scopra l’organizzazione segreta grazie alla quale moltissimi bambini sono stati già salvati. Rischio che la protagonista Zofia sceglie di non correre, consapevole tuttavia delle conseguenze del suo gesto. Che ne sarà infatti di Elżbieta abbandonata al suo destino? Il tormentoso senso di colpa con il quale la donna dovrà convivere troverà mai un argine, una sponda, una fine?
Un giorno la bambina, scampata allo sterminio e diventata ormai donna, tona da colei che le aveva negato aiuto: è il confronto tra le due protagoniste che viene posto al centro del film, confronto tra due esseri che chiama in causa interrogativi universali e che delinea uno spazio di riflessione per un secondo confronto più ampio, quello tra passato e presente, dove il presente è ancora percorso e funestato dai fantasmi implacabili della guerra.
Trovarsi in uno stato di necessità, chiedere aiuto, essere vittima: dopo decenni, Elżbieta si sente ancora costretta dentro quella che percepisce come una sorta di categoria identitaria, in un mondo che le appare imperscrutabilmente diviso tra “coloro che devono ricevere aiuto” e “coloro che possono darlo”, due realtà nettamente separate da una linea misteriosa tracciata secondo una incomprensibile geometria. Ma, tra i personaggi del Decalogo, è una tra i pochi che può ancora liberarsi e rinascere, poiché non inquinata dal rancore e dall’odio; Zofia, dal canto suo, non cerca l’assoluzione e non pretende di pacificarsi: è proprio in questo equilibrio delicato e precario che il regista vede la possibilità dell’incontro, del riconoscimento, dell’avvicinamento autentico e sincero.
Nei dieci mediometraggi che compongono Il Decalogo, Kieślowski costruisce una sorta di osservatorio sul comportamento umano, e i dilemmi etici a cui di volta in volta pone di fronte i suoi protagonisti sono tutti fortemente radicati nel quotidiano. La fragilità delle relazioni umane, l’impasse comunicativa, il senso di colpa e soprattutto la menzogna, connaturata – sembrerebbe – a un agire che è sempre socialmente condizionato, e non si esaurisce neppure lontanamente nel discorso sviluppato in questo ottavo capitolo. I personaggi di Kieślowski i mentono perché, realisticamente, sono stretti ogni volta tra la crudezza del reale e l’irriducibilità del desiderio; sono personaggi continuamente messi alla prova, segnati dal disamore, dalla solitudine, frustrati dall’impossibilità di autorealizzarsi e dal rischio perpetuo dell’implosione. I dieci comandamenti sono allora una traccia per un percorso che non cerca il senso del sacro, ma che trova, piuttosto, in una dimensione circoscritta, non per forza “alta”, spesso anzi prosaica, una profondità a tratti abissale e tuttavia rivelatrice, una sorta di riconoscimento del senso dell’agire.