La bella gente
Come sempre De Matteo sceglie di scandagliare zone d’ombra della nostra società e di noi stessi, quelle ipocrisie caratteriali, di modi, usi e costumi che ci contraddistinguono
Volersi insinuare nella mente delle persone è pratica sbagliata e scorretta. Ma soprattutto lascerebbe spazio a insinuazioni che avrebbero più il sapore di un processo alle intenzioni piuttosto che una sincera sete di conoscenza. A questa pratica non ci abbasseremo. Ci limiteremo però a sostenere delle motivazioni che potrebbero aver indotto Ivano De Matteo a dirigere questo suo La bella gente, ultima opera analizzata dalla retrospettiva a lui dedicata da I Sotterranei e penultimo lavoro prima del recente Gli equilibristi. Queste motivazioni sono ragionevolmente rintracciate e quindi proposte giacché le si ritengono insite nella filmografia del regista di Prigionieri di una fede, consistenti in uno sguardo illustrativo e partigiano verso le idiosincrasie sociali e di classe che caratterizzano la nostra società. Come nei suoi lavori precedenti, anche qui De Matteo sceglie di scandagliare zone d’ombra della nostra società e di noi stessi, quelle ipocrisie caratteriali, di modi, usi e costumi che ci contraddistinguono lasciando che a schermare il quadro affrescato rimanga un’ipocrisia lampante che il regista ci obbliga a vedere.
Stavolta siamo nella campagna agiata, geometricamente simmetrica e dai colori retorici della borghesia romana, quella che – magari poco amante del mare – dal centro della capitale si rifugia per le sue ferie in casali che di contadino e campagnolo non conservano nulla. Alfredo e Susanna, due abbienti coniugi romani di mezza età, stanno soggiornando nella loro villa agreste fatta di strade private, parquet, interni in marmo e ampi cortili. Un giorno Susanna vede sulla strada statale poco distante dalla sua abitazione una giovanissima donna nell’atto di prostituirsi. Mossa da sincera compassione materna decide assieme ad Alfredo di strapparla alla strada e accoglierla come una di famiglia. La giovane ucraina, Nadja, sulle prime scostante e intimorita dal gesto inconsueto dei coniugi, accetterà poi di buon grado il destino che Susanna e Alfredo hanno deciso al posto suo. Questo quadro, talvolta sinistro ma fondamentalmente idilliaco, verrà incrinato dalla presa di coscienza di Nadja, che dopo un periodo di stordimento decide di autodeterminarsi, facendo scelte non sempre condivise da Susanna e che innescheranno nei coniugi ipocrisie e pregiudizi che avevano sempre covato per la ragazza ma che ora – a quadro compromesso – fuoriescono in tutta la loro ripugnanza.
Ivano De Matteo firma un’opera schietta e ben intavolata facendosi notare dietro la macchina da presa per una salda poetica illustrativa, che riesce a coniugare la doverosa parzialità dell’autore con un film che non scade mai nel giustizialismo, nella morale facilona, e che mai lancia anatemi da pulpiti che si rivelerebbero di cartapesta. Quello che De Matteo propone è un’analisi interessante e poco praticata nei confronti del perbenismo imperante, quello che ci vorrebbe tutti moralmente retti, eticamente inattaccabili e civilmente ligi ma solo a chiacchiere, per una società reale nei fatti quantomai distante da queste eccellenze umane. Susanna e Alfredo togliendo dalla prigionia di strada Nadja in verità la costringono in una seconda, fatta di lusso, comodità e affetto, ma non per questo meno autoritaria e prepotente. I coniugi vogliono che Nadja sia un loro trofeo morale da sfoggiare con gli amici per mettere in mostra la loro levatura intellettuale e civica. La vestono, la sfamano, la indirizzano e la aiutano ma sempre ed esclusivamente alle loro condizioni. Uscire dal seminato, da quello che Susanna e Alfredo hanno voluto per lei, significa per Nadja l’immediato tradimento “verso la mano che l’ha sfamata”, per una logica di classe che non risparmia neanche i due coniugi “comunisti”, progressisti. Nadja si ritrova così a muso duro con i due, prendendo atto della sua situazione, comprendendo d’essersi auto-reclusa in una prigione; dorata ma pur sempre tale.
Nonostante il film non possegga una precisione illustrativa e delle altezze d’analisi di alto livello, La bella gente si distingue nel mare magnum della produzione italiana per il coraggio civile e l’acutezza sociologica, attributi che permettono al lungometraggio di spiccare fra tanti suoi commilitoni. La bella gente offre uno spaccato lucido e sincero sul reale significato della parola “perbenismo”, sulla retorica che ammanta e svuota tanti nostri bei discorsi, sulle reali (o perlomeno plausibili) differenze che distinguono la pratica dalla teoria. L’opera diviene quindi una palestra intellettuale di facile fruizione per platee delle più disparate, le stesse che popolano i tanti salotti della retorica italiana, diversi per ceto ed estrazione culturale ma accomunati dalla medesima ipocrisia.