Esiste un mondo dove i significanti non sono i significati. Non almeno quelli che comunemente attribuiamo loro. Questo perché se è vero che esiste una coscienza e una conoscenza condivisa è altrettanto vero che questa condivisione è sì vasta ma non sterminata. Per via delle differenze sociali, geografiche o di specie. Esiste un mondo dove – per esempio – uno specchio è un oggetto simbolicamente mitico, figura retorica e pozzo immaginifico senza fine, epos e ethos, significato e significante allo stesso tempo; segno del cliché, cardine narrativo, locomotiva iconica. Esiste un mondo dove uno specchio è solo uno specchio.
Il genere umano contemporaneo e civilmente evoluto può senza dubbio afferire al primo mondo illustrato, quello cioè dove lo specchio è oggetto metafisico. Ma se l’uomo partecipa alla messa in scena dell’annichilimento dell’oggetto mitico il risultato è catartico (perché svela una parte comunque vera dell’ontologia dello specchio, quella cioè che lo vede mero oggetto riflettente), antiretorico (perché spazza via fiumi di luoghi comuni che ci hanno costretto – addomesticato – a vedere l’oggetto nella sua essenza metafisica) e nichilista (perché ribadisce il concetto per cui le cose non hanno un valore predeterminato, ma solo quello che vogliamo dargli – e non che qualcun altro ha dato prima di noi per poi imporcelo). Ora tutta questa costruzione letteraria potrebbe correre il rischio di implodere in se stessa se non stessimo parlando di Cosimo Terlizzi, un artista che della pornografia visiva – quella cioè sovraesposta, zoomata, ribadita, distrutta e servita nuda e cruda – ha fatto la sua cifra stilistica.
Come nei suoi precedenti lavori – uno su tutti: Folder – anche in La benedizione degli animali il regista offre una visione altra e lacerata della realtà, quella cioè dove uno specchio è solo uno specchio. In una fattoria alle porte di Bergamo Terlizzi pianta l’oggetto fra gli animali come per un’installazione artistica (e questo infatti era nelle intenzioni il progetto dell’autore, per quello che poi è diventato anche un cortometraggio filmico e non solo video-artistico) e la frizione fra i due mondi, il nostro e il loro, è tutta lì, nell’occhio del pavone, della gallina o del maiale che guardano la superficie riflettente con una noncuranza che va oltre il termine stesso, un disinteresse genetico e di specie che distrugge tutta la mitologia che l’uomo ha costruito intorno ad esso. Mentre la frizione prende atto nello spettatore sta morendo un’idea e un intero vocabolario di significanti viene velocemente scandagliato: se ci siamo scordati che uno specchio può essere solo uno specchio, probabilmente abbiamo commesso la stessa leggerezza altrove, in altri contesti. Dove?
Solo questa domanda vale lo sforzo artistico e intellettuale di Terlizzi, nel suo continuo e fruttuoso tentativo di raccontarci un mondo antiepico, dove nulla è precostituito e tutto viene deciso e modellato qui e ora, significati e significanti, per uno sforzo intellettuale rigeneratore (a patto che si sia disposti a far morire le nostre sovrastrutture archetipiche), vitale, avanguardista. E rivoluzionario.