Bologna, si sa, è considerata dai più la capitale del PCI italiano. Ma a questa visione immediata della realtà si rende necessario un compito più arduo, consistente nel definire i processi che hanno portato alla creazione di questo luogo comune, di questo luogo di verità, di uomini e di percorsi storici. Michele Mellara e Alessandro Rossi in questo loro La febbre del fare – Bologna 1945-1980 tentano l’intentato, ovvero sia ricostruire grazie all’utilizzo di materiali di repertorio tutto il percorso che il capoluogo emiliano ha compiuto nella sua esistenza democratica e ciò che esso ha significato per l’immaginario collettivo nazionale, oggi cristallizzato in una visione progressista della città ma prima d’allora ancora privo di qualsivoglia stereotipizzazione.
E ancora una volta si assiste alla vecchia equazione, secondo la quale ad ogni luogo comune corrispondono delle verità oggettive che hanno concorso alla formazione dello stesso. Grazie ad un lavoro certosino dei due registi, alla disponibilità della Cineteca di Bologna e alla spinta economica della Mammut Film, La febbre del fare si mostra allo spettatore in tutta la sua puntualità, restituendo uno spaccato articolato, profondo e veritiero del capoluogo di Regione. Bologna, una delle città più vessate durante i massacri nazifascisti e i relativi bombardamenti alleati, si presenta nel 1945 con poche case ancora in piedi, metà delle quali comunque inagibili. Giuseppe Dozza, poi storico sindaco comunista della città dal 1945 al 1966, quella cittadella diroccata quasi non la riconosce. L’uomo tornava nella sua città natale dopo vent’anni di esilio in Francia costretto dal fascismo. La città, se lasciata all’incuria o se i cittadini si fossero lasciati sorprendere da un pur legittimo sconforto, sarebbe decaduta irrimediabilmente. Ciò che accadde è oggi noto, e il sindaco Dozza fu un illuminato cocchiere di una carrozza popolare decisa, partecipe, battagliera e che di darsi come sconfitta non ne aveva la minima intenzione. Bologna rinacque e con lei l’Italia. Dozza non venne mai sconfitto alle elezioni comunali della sua città, facendo arrivare il suo partito a delle percentuali vertiginose vicine al 50%. Ciò che successe nell’aprile del 1966 fu ben altro, fu il gesto saggio di un uomo stanco: Dozza non si sentì più in grado di svolgere appieno i suoi doveri costituzionali e cedette la sua poltrona a Guido Fanti, che la tenne fino al 1970, per poi inaugurare un valzer di sindaci il cui minimo comun denominatore fu sempre l’appartenenza al Partito che fu di Togliatti.
Ben oltre la semplice apologia di un eccellente e funzionante meccanismo, Michele Mellara e Alessandro Rossi indagano a livello storico, cronachistico e politico come Bologna riuscì ad essere quell’avanguardia progressista e di civiltà che indubbiamente fu. Sontuoso è lo sforzo archivistico e d’indagine da parte dei due registi per ricostruire le politiche sociali, finanziarie e culturali che fecero grandi Dozza e i suoi successori. Nulla è lasciato al caso o all’immaginazione e molti sono i passaggi storico-politici su cui i registi si focalizzano: che sia la creazione dell’Azienda Farmaceutica Municipalizzata come i piani di urbanistica popolare, passando anche per eventi laterali come la creazione di sottopassaggi pedonali, il quadro che si ha dalla visione di La febbre del fare è assolutamente esaustivo. Come non si glissa neppure sugli anni bui che Bologna visse assieme al Paese. Dopo Marzabotto altre stragi piombarono nei territori bolognesi. L’Italicus come la strage alla stazione di Bologna collocavano la nazione nel suo quindicennio più triste, tragico e violento. L’eversione fascista e il terrorismo brigatista fecero cadere il Paese nel caos e con lui Bologna. Nel frattempo l’eurocomunismo di Berlinguer si andava a scontrare contro un cortocircuito interno dell’elettorato di base che mal digeriva l’affrancamento dalla via rivoluzionaria per la conquista del potere. Agli anni più foschi Bologna rispose in maniera encomiabile e lungimirante, senza mai cedere a facili strumentalizzazioni e pressapochismi, individuando sempre i torti e le ragioni dei dissidenti, isolando i violenti e ascoltando invece chi voleva porre le criticità politiche in termini democratici.
Di questo e di tantissimo altro parla il lavoro a quattro mani di Michele Mellara e Alessandro Rossi La febbre del fare, per una mole di informazioni accompagnate ad una sapienza di lettura critica buone più per degli approfondimenti universitari che per un passaggio televisivo. Ma coscienti di queste peculiarità non si può qui non elogiare il grande lavoro di recupero e rinverdimento della memoria storica italiana dei due, frutto esso stesso di una condivisione dei saperi e dei compiti che sono l’essenza primaria che anima quest’opera documentaristica.