“La razza umana può sopravvivere benissimo
senza un’offerta interminabile di farmaci nuovi,
ma non le società che li producono”
Jacky Law
Circa quarantamila persone muoiono ogni giorno a causa di malattie facilmente curabili. C’è da chiedersi perché, visto che la maggior parte di queste malattie nei paesi industrializzati non sono più considerate mortali (e alcune sono state addirittura debellate). Da questa domanda nasce il documentario di Michele Mallara e Alessandro Rossi Le vie dei farmaci, prodotto dalla Mammut Film. Nasce, non solo risponde. Infatti, oltre a spiegarci in maniera chiara e concisa il perché, i due registi raccontano una realtà che pochi di noi conoscono, e ci portano volenti o nolenti a porci molte altre domande. Prima fra tutte quella posta da Ellen Hoen di Medici Senza Frontiere, durante una conferenza stampa riguardante una controversia fra il Sudafrica e le industrie farmaceutiche: “Questo caso riguarda proprio quello che viene prima: gli interessi commerciali delle multinazionali o il diritto delle persona alla vita?“
La questione ruota attorno ai TRIPS, accordi che regolano gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale (Trade Related Intellectual Property) e vi è una diretta correlazione fra questi e l’accesso ai farmaci nei paesi in via di sviluppo. Il brevetto su un determinato farmaco comporta uno sfruttamento economico esclusivo, quindi l’assenza di concorrenza sul mercato genera un monopolio che impedisce l’abbassamento dei prezzi e nega ai paesi in via di sviluppo l’accesso al suddetto farmaco. Questo fa riflettere. Nasciamo e cresciamo ingenuamente convinti che chi produce i farmaci lo fa per migliorare la qualità delle nostre vite e per garantire la nostra salute, ma questo documentario ci svela come in realtà l’industria farmaceutica, come qualsiasi altra industria, ci consideri meri consumatori, non esseri umani. Da qui è facile capire come un cittadino di un qualunque paese in via di sviluppo non possa essere considerato un consumatore, poiché non può sostenere le proprie spese mediche: queste persone non esistono perché non esistono sul mercato.
Il documentario però non vuole, come spesso accade, colpevolizzare i paesi industrializzati e elevare a martiri i paesi in via di sviluppo: vuole solo evidenziare quale sia il meccanismo che regola il sistema delle industrie farmaceutiche e dei brevetti, inducendoci forse a pensare che questo non possa funzionare a livello globale. Infatti “[...] i ministri del commercio non si sono resi conto che firmando quegli accordi hanno firmato al tempo stesso una condanna a morte di migliaia di cittadini dei paesi più poveri del mondo [...]” (Joseph Stiglitz, Premio Nobel 2001), ma non solo, forse non si sono resi conto che questo meccanismo provoca un aumento del prezzo dei farmaci decisamente più rapido rispetto alla crescita del prodotto interno lordo nei paesi industrializzati: ma se è lo Stato, attraverso il sistema sanitario, a garantire la salute dei propri cittadini, ci si chiede per quanto ancora riuscirà a farlo.
Già autori del lungometraggio Fortezza Bastiani e di tre diversi documentari (La febbre del fare – Bologna 1945-1980 solo per citarne uno), il duo registico ci presenta un documentario di interesse globale, narrato con chiarezza, sensibilità ed un pizzico di ironia. Un paesaggio di sfruttamento economico raccontato non soltanto come mezzo divulgativo attraverso il metodo di inchiesta, capace di intromettersi nelle incongruenze e zone d’ombra del sistema farmaceutico mondiale, ma anche attraverso una selezione dettagliatissima di materiale polivalente e narrativo che spazia dalle immagini di repertorio dell’Istituto Luce all’animazione statistica e di indagine geografica e territoriale, fino ad arrivare a spezzoni di film, interviste, immagini dall’Oriente, dall’Africa, dal Sud del mondo. Il tutto orchestrato da un’ottima regia che non annoia mentre cerca di fare chiarezza e che ben saldamente riesce a divincolarsi tra le più svariate forme exstratestuali, assemblando il tutto attraverso un’evocativa colonna sonora capace di amalgamare il materiale eterogeneo, apparendo e scomparendo tra la bellezza delle immagini, somministrando attraverso un giusto dosaggio il pathos febbrile del disagio ed il silenzio disinfettato proprio della lettura d’inchiesta. Documentario del 2007, analisi italiana posteriore sia al saggio di Jacky Law Big Pharma che al documentario di Micheal Moore Sicko, non per caso ha vinto numerosi premi, tra cui quello di miglior documentario italiano al Torino CinemAmbiente del 2007.