La notte del giudizio: Election Year -
Una linea rosso-sangue unisce questo The Purge al recente 13 Hours di Bay: due visioni eretiche, capaci di rappresentare le nuove coordinate del reale distopico in modo sorprendente. Cinema purissimo.
James DeMonaco ci ha purgato ancora. Dopo La notte del giudizio e Anarchia - La notte del giudizio ecco La notte del giudizio - Election Year, terzo capitolo del franchise The Purge, da lui scritto e diretto, pronto ad invadere le sale italiane sul finire di questo Luglio sì terrificante.
Stavolta il prodigale Jason Blum non ha badato a spese, elevando il budget di produzione a 10 milioni di dollari, quasi una follia per la sua Blumhouse, e il box office Usa ha risposto ovviamente alla grande anche se non alla grandissima, sfiorando gli 80 milioni, in linea con gli incassi del secondo film.
Il focus della nostra attenzione non è tuttavia il denaro, quanto l’ispirazione dell’opera, che è politica, se si è disposti a riconoscere l’ideologia in un prodotto di intrattenimento purissimo, un’ideologia così palesemente liberal da non poter essere equivocata, e qui entra in scena Michael Bay, nelle vesti di coproduttore ed influencer. Pochi, in patria ed all’estero, hanno visto il suo 13 Hours: the Secret Soldiers of Benghazi, pochissimi lo hanno apprezzato, i più essendo spaventati dal racconto di una guerra infame, una rogue war, combattuta in modo non convenzionale da milizie irregolari. Nessuna superiorità morale a stelle e strisce lì, solo un pugno di valorosi contractors – mercenari professionisti pagati a cottimo – contro formazioni randomiche di indigeni bellicosi (partigiani? terroristi? traditori?). La schizofrenia del nuovo (dis)ordine mondiale secondo Bay riportata in patria diventa il crollo dello stato etico secondo DeMonaco, proiettato nella distopia dell’anno 2040 mentre nel 2016 reale stanno per svolgersi le elezioni più strampalate e desolanti della storia americana.
Il racconto parte sui binari usuali: si è alla vigilia dello Sfogo, la purificazione, una notte in cui il crimine viene tollerato e legalizzato, ma una senatrice in corsa per la Casa Bianca, la cui famiglia fu trucidata anni prima, vorrebbe abolire il Pogrom di Stato. Di conseguenza i capataz della lobbie WASP di governo cambiano le regole in corsa ed alzano l’asticella dello Sfogo, estendendola alle categorie un tempo protette, politici, diplomatici e ministri della fede ufficiale. L’intento è chiaro, eliminare l’avversaria, braccata fin da subito dai mercenari della fratellanza ariana, sorta di gang neonazista armata come nemmeno i Marines. Fortunatamente, la neo gandhiana trova i suoi angeli custodi in una notte così orribile: una guardia del corpo scrupolosissima, ex purgatore pentito, e poi un ristoratore nero, il suo compare immigrato messicano ed una volontaria infermiera ma anche guerriera. Un gruppo di varia estrazione, che in assetto variabile attraverserà una Washington infernale e con essa vari generi dell’horror cinematografico, dall’home invasion al survival, dall’action di elevatissima qualità (Bay Rules) alla rescue mission.
Lo scenario infatti è sempre cangiante, all’assedio intra moenia segue la guerriglia con le gang di strada, per arrivare allo zenit del contrappasso, quando le prede diventano cacciatori e assediano la cattedrale dei lealisti, coacervo di fabbricanti di armi e potentati e invasati religiosi, proprio mentre sull’altare la donna del destino è prossima al nolente sacrificio umano. L’eterogeneità dei contesti è tenuta insieme da una texture di morte e sangue, il marchio di fabbrica del franchise è la moltitudine dei mortammazzati nei modi più fantasiosi da nugoli di psicopatici in incognito, truccati, mascherati, illuminati al neon. A differenza dei primi due capitoli, l’occhio di DeMonaco indulge sui dettagli più gore, cervelli spappolati e corpi crivellati, accentuando la pruderie voyeuristica dello spettatore davanti ad una violenza che conserva la sua dimensione filmica pregnante e non si confonde con la pornografia visuale dei nuovi media.
Election Year vive su un cast di attori pressoché carneadi o mestieranti, ma quello che può sembrare un limite è in realtà un fattore di successo, protagonista resta il racconto, la cui inusuale durata – più prossima alle due ore “autoriali” che ai 90 minuti guarda&fuggi – testimonia il salto di qualità compiuto da DeMonaco e dalla Blumhouse tutta. Restiamo così, appagati e contenti, queruli sin d’ora per un quarto The Purge, magari ambientato in un altrove dagli Usa, magari al di là dello Stretto del Bosforo, chissà.