Land of the Little People
Tra grottesco e denuncia politica, Berman mette in scena un attacco frontale nei confronti di un Israele vittima di politiche conservative e militariste.
Tra le villette a schiera di una benestante comunità suburbana sta crescendo la migliore gioventù israeliana: madri in dolce attesa, padri richiamati al dovere dall’ennesima incursione lampo, figli che disegnano bandiere nazionali e inneggiano alle truppe dell’IDF. Praticamente un paradiso borghese, che un gruppo di bambini del posto si preoccupa di alimentare e proteggere con ciclici sacrifici di sangue, tributi ad un’entità femminea mostruosa e terribile. La Gorgone, invisibile agli occhi dello spettatore, vive nascosta nei sotterranei di una vicina base militare, un sito abbandonato da anni che i giovani protagonisti hanno eletto a loro esclusivo campo giochi. Questa è la Land of the Little People. Ma cosa succede se in quegli stessi ruderi decidono di nascondersi anche due giovani disertori? Israele infatti è di nuovo in guerra, e la patria belligerante pretende regolarmente il sacrificio dei suoi figli.
Nonostante quello di Yaniv Berman sia un approccio ancora acerbo, che con difficoltà argina il forte schematismo di fondo che anima e giustifica tutto il racconto, Land of the Little People arriva allo spettatore in tutta la sua carica politica, un attacco frontale nei confronti di un Israele vittima di politiche conservative e militariste. La metafora della madre mostruosa e sanguinaria, entità prevaricante che si nutre dell’adorazione delle nuove generazioni, è una figura retorica tanto semplice quanto radicale, indubbiamente potente e preziosa per come riesce a dare spazio alla difforme voce della protesta.
Al centro del racconto Berman pone lo scontro paradossale, e via via più atroce, tra i bambini del posto e i due militari imboscati, fazioni che il film inverte di segno ritraendo gli ex soldati come uomini infantili e litigiosi, mentre i ragazzi si trasformano in cacciatori spietati e dediti alla causa. Mano a mano che il confronto aumenta il registro da denuncia politica si mescola sempre più al grottesco, andando a creare un sistema di segni nel quale tutti gli elementi del narrato convergono nella rappresentazione di un paese smarrito nel culto di sé attraverso la violenza. Peccato che in questa struttura così studiata Berman non riesca a garantire a storia e personaggi un respiro indipendente dalla dimensione metaforica – una focalizzazione retorica che si rovescia anche su un piano registico appiattito, poco incline a sviluppare visivamente le suggestioni evocate dal racconto. Però certo, ad avercene di registi con una simile urgenza espressiva, di film così lucidi e impegnati nel voler ritrarre le peggiori idiosincrasie del proprio paese, nella speranza che lo specchio distorcente del cinema possa offrire un’alternativa politica, e quindi morale, per la propria comunità.