Bertrand Bonello è un esteta, un regista che ama adagiarsi con una solo apparente placidità sulla composizione pittorica dei suoi film per poi insinuare al loro interno delle provocazioni melliflue e velate, che prediligono i mezzitondi e che della sovraesposizione del cattivo gusto non saprebbero davvero che farsene. Tale atteggiamento, se da un lato può essere bollato come pseudo-intellettuale, paracool chic e costruito a regola d’arte in modo furbastro e ricattatorio, dall’altro cela in realtà una natura ben più sincera di quanto le apparenze e il vociare generale potrebbero lasciare intendere.
Dopo Il pornografo e Tiresia, Bonello con L’Apollonide – Souvenirs de la maison close torna a dividere in modo radicale, a spaccare in opposte fazioni gli apprezzatori e i (ben più nutriti) scettici che faticano a trovare la sostanza dietro una maniera così ostentata e totale, a grattare la vernice di un cinema che viene tragicamente, troppo spesso ricondotto alla categoria esclusiva e totale del patinato fagocitando tutto il resto.
Ma ne L’Apollonide lo sguardo del regista, pur con un sottile compiacimento di fondo e con un’affezione non indifferente per la storia che racconta, si carica di una rinnovata portata umanista: il cineasta francese delinea ritratti pennellati e impressionistici di donne recluse che vendono i loro corpi in una casa di piacere in cui la commercializzazione della goduria sessuale è legalizzata e ne restituisce le psicologie muovendosi in punta di piedi, calibrandone dolcemente i gesti, le insicurezze, i piccoli quotidiani tormenti. Niente psicologismo e ben pochi eccessi, men che meno quella vena artificiosa e mistificatoria di cui Bonello viene tacciato da sempre. A dominare è la moderazione delle tonalità, il tono sfumato, il racconto minimale che coincide con quei ricordi evocati fin dal titolo originale, armi a doppio taglio attraverso cui le donne, giovani o meno giovani non importa, passano dalla malinconia smussata nelle sue punte più aspre a momenti di dolore più abrasivo e insostenibile, vissuto a causa di uomini violenti e perversi, privi d’esitazione tanto nel mirare al loro sesso con goffa voracità quanto, talvolta, nello sfregiarle per sempre, sottraendo loro dignità e sensualità. Succede a una di loro ed è il momento più intenso e disturbante del film di Bonello, lo spartiacque e il simbolo nodale insieme probabilmente all’urticante prologo e a quella scheggia scorporata ed estranea rispetto al resto del film che è il finale, con fotografia mutata e cambiamento (leggasi: apertura, in senso anche prettamente fisico) dello spazio filmico, come a suggerire che il cinema è oggi altro e che nell’era del digitale anche la resa cinematografica dei corpi ha oltretutto perso la levatura morale di un tempo, scantonando per sempre nel mercimonio dell’immagine. Una tesi forzatissima e un po’ troppo macchinosa, in questo caso, quella sposata da Bonello, ma che se non altro apre a scenari di riflessione non da poco.
Il raffinato decadentismo del regista sfiora però davvero le lacrime delle protagoniste dando loro una consistenza, in forma (lì sì) non mediata e stridente, nel curioso e inclassificabile prefinale del film, in cui molti elementi precedentemente accennati con un tono ben più levigato compaiono nella loro variante più esacerbata e aliena da compromessi di ogni tipo, proprio nel modo in cui si potrebbe percepire l’impietoso tratto pittorico di un Gustave Courbet dopo essersi parati davanti agli occhi una serie ben più ampia di damine ritratte alla maniera settecentesca.
Il mondo chiuso de L’Apollonide, fatto di reclusioni vergognate e maschere che si centuplicano, cede così il passo a una contemplazione morale che il regista porta avanti con un rigore attentissimo alla confezione ma mai prono al mero infiocchettamento fine a sé stesso, un baratro esistenziale sottolineato tanto da un montaggio languido quanto da una curiosissima scelta musicale: le partiture che compongono la colonna sonora, firmate dallo stesso, ispiratissimo Bonello, sono maestre di discrezione e contrappunto, sottolineano le sfumature tramutandole in sottigliezze sfavillanti, da cogliere ad una ad una per lasciarsi se non sorprendere quantomeno irretire.
Mentre un secolo, il XIX, giunge a conclusione affogato nel sangue di una ferita aperta che si dilania ed esplode copiosa per poi rimarginarsi e infine cicatrizzarsi solo in seguito, parallelamente ne inizia uno nuovo, il XX, che nulla avrà da invidiare al suo predecessore in quanto a orrori perpetrati per mano (dis)umana: un passaggio che all’inizio del film è evidenziato in maniera quasi didascalica, rimarcando un contesto di sfruttamento femminile e di prostrazione della dignità dell’animo umano che può apparire legittimamente scontato sul piano storico-antropologico ma che è in grado di comunicare ben altro se ci si limita al mero (si fa per dire) potere concentrato delle immagini: uomini che non guardano mai abbastanza dentro il sesso delle donne, piaceri entomologici e coltelli in agguato pronti ad intagliare i corpi generosi di fanciulle purissime, i cui visi esplodono ancora della luce di una verità abbacinante e appaiono ben distanti dalle perversioni umbratili che di lì a poco saranno costrette a subire per mano di amanti impazziti che vanno assecondati. La putain de merde diventa geisha, tutto si irrigidisce ma al contempo prorompe anche un ben più forte senso di tragicità ultima dai – sulla carta – imbalsamati quadretti di Bonello. Con un split screen di sorprendente forza anticlassica, il regista filma le sue donne contemporaneamente, donando loro la luminosità disarmante di un bagliore neoclassico che sarà poi spazzato via in quel finale colmo di sporcizia e putridume, di lacrime come non ne abbiamo mai viste - letteralmente - e autoironie estreme, per rimanere allegre, per non morire, nonostante tutto.
“Schifoso mestiere, quello della puttana”, dice il personaggio di Jasmine Trinca, e tutte le sua compagne della casa chiusa ridacchiano, conformemente a quella necessità di facciata che le vuole comunque gioviali, anche nel privato, anche laddove potrebbero sfogarsi in ben altro modo. Le prostitute di Bonello non lo fanno (quasi) mai, non reagiscono allo stereotipo di chi le vorrebbe ottuse, abbrutite e con delle teste dal diametro ridottissimo, subiscono passivamente e servizievolmente. La pietra tombale sulla vita miserevole di questo pugno di donne è la frase che una di loro rivolge a un suo amante: “Potrei strapparmi gli occhi perché tu abbia più buchi per fare l’amore con me”. La speranza di un affrancamento è la prima a morire, la coccinella sulla cornice dorata non è soltanto volata via, ma probabilmente è già stata schiacciata.