Unsane
Thriller hitchcockiano ai tempi dell’estetica mobile e dell’iperconnessione, in fuga verso la stanza blu.
Quello di Steven Soderbergh è un cinema ossessionato dall’idea di identità. In un mondo che cambia troppo in fretta, i suoi film devono specchiarsi con l’occhio dello spettatore, riconfigurarlo, cercare nuove prassi di visione: una trilogia sul colpo grosso diventa uno studio divertito sullo star system americano (Ocean’s Eleven e seguiti); il remake di un capolavoro del cinema si fa corpo replicante alla ricerca disperata della propria unicità (Solaris); un biopic su Liberace inscrive l’apologo di un uomo che volle farsi maschera per sfidare il tempo ed il dolore (Behind The Candelabra)…e così via.
Fra rimontaggi che sfidano qualsiasi idea istituzionale del cinema, serie tv come app interattive e nuove modalità di distribuzione, il dispositivo filmico di Soderbergh è un corpo che muta continuamente pelle, senza pace, timore o reverenza. Supera se stesso, fa finta di fermarsi un po’ per poi ripartire da capo.
In fondo è quello che avviene a Sawyer Valentini, la protagonista di Unsane, che cambia identità per sfuggire a uno stalker e si trova rinchiusa in una clinica psichiatrica. Vengono in mente i corridoi della paura di fulleriana memoria e i sospetti che tormentano il cinema hitchockiano. La domanda più vecchia del mondo – chi è unsane? La protagonista o la realtà che la circonda? - oggi diventa: chi guarda e chi è guardato? Chi controlla le immagini, chi è da esse immaginato? In un presente iperconnesso, come si fa a ristabilire il punto di vista? Come si fa a decifrare lo sguardo? “Sei tu o sono io?” si chiedeva Kristen Stewart nel finale di Personal Shopper di Assayas (testo filmico di fondamentale importanza sul mondo virtuale: chi c’è dall’altra parte dello schermo? Siamo sicuri che la rete, come nel profetico Kairo di Kurosawa, non configuri un autentico regno dei fantasmi? Siamo all’escatologia virtuale: la casa infestata è il mondo virtuale).
Sawyer Valentini, dunque, è la summa dei personaggi soderberghiani, che sembra ricalcare pedissequamente il movimento del suo cinema. Che è un movimento sperimentale e bulimico: si ferma, cambia identità e riparte ogni volta da zero. Uno zero, questo, tutto digitale, inteso come processo di radicale trasformazione mediale. Lo si diceva di David Cronenberg, ma vale anche per Soderbergh: il cinema è un corpo infetto, soggetto a una continua trasformazione. Non muore, diventa qualcos’altro. Il digitale è l’agente del contagio, il film un effetto collaterale.
Unsane è un’opera epidermica perché considera il nostro cervello come già contaminato. Non si tratta solo di girare un intero film con l’Iphone, si tratta di realizzare come tutti i dispositivi mirino oggi all’invisibilità. Non c’è più bisogno di un medium fra noi e le cose, quel medium è ormai inscritto nella nostra stessa testa. D’altronde, l’obiettivo di ogni tecnologia è quello di essere parte di noi, di dissolversi nella nostra carne, sottopelle. In questo Soderbergh è geniale: l’estetica mobile ha riconfigurato il nostro sguardo, diventando parte di noi, restituendoci il reale come uno scarto. Lo stalking diviene condizione esistenziale: siamo tutti nelle immagini, fra le immagini, dentro l’orizzonte visibile. Così l’ennesima variazione hitchcockiana del Sono innocente si fa pretesto per raccontare gli avatar del mondo reale. Che sono, per l’appunto, simulacri del cinema. Un cinema già visto, già sentito, già fatto che denuncia continuamente il suo impianto parodico (come in The Canyons con quel magnifico sguardo in macchina finale).
Il sospetto della propria percezione, l’invito a non fidarsi più dei propri stessi sensi: l’altro è il nostro fantasma. Basta pensare all’immancabile siparietto in cui l’agente Matt Damon consiglia a Sawyer come evadere dal suo stalker: evitare i social, i tag, le telecamere, elidere insomma qualsiasi doppio. Che praticamente oggi significa scomparire. Mirare all’invisibilità in un mondo iperconnesso. La cosa interessante è che il monito – come tutto il film - è registrato da un Iphone, che intrappola lo sguardo, rende l’immagine così claustrofobica da non trovare più vie di fuga.
La nuova estetica mobile si fa dimensione narrativa. Ma Soderbergh va oltre: fugge nella stanza blu che è un regno fuori dagli schermi, così primitivo da ribaltare i rapporti di potere, da lasciar fuoriuscire le emozioni più profonde. Vittima e carnefice si sfidano in un duello finale che pare un gioco di ruoli: qui la simulazione di Sawyer è l’unica arma di battaglia. Sfidare il proprio stalker a telecamere chiuse, che praticamente significa negarlo, chiedergli un sacrificio reale. La fuga nel bosco, in questo senso, è regressiva, violenta e non può che consumarsi nell’omicidio – inteso come “finta” liberazione dal visibile.
Eccolo qui, Unsane, un film politico perché rappresenta l’intero sistema come infermo, facendo del cellulare una parte di noi, come nel selfie perenne di un mondo ammalato di solitudine.