Trenque Lauquen
Laura non c’è: in Trenque Lauquen, il mistero come ermeneutica e la realtà come mistero. Citarella e Paredes firmano l’ennesimo capolavoro del Pampero Cine - e forse il film che contaminerà l’Europa.
L’atteso abboccamento tra l’Europa e il Pampero Cine è infine arrivato, un po’ a sorpresa, con Trenque Lauquen di Laura Citarella. La presentazione a Orizzonti, e soprattutto l’incoronazione da parte dei Cahiers nella loro classifica annuale, segnalano una sintonia più profonda di quanto farebbe un comunque improbabile successo di sala. Arbitrarie che ne siano le scelte, non si sottovalutino questi dispenser di legittimità culturale nell’indirizzare, se non i gusti del grande pubblico, quantomeno le attenzioni degli addetti ai lavori. Da oggi, e c’è da scommetterci, il cinema “autoriale-mainstream” troverà nel modello teorico e realizzativo del Pampero il nuovo scossone in grado di rivitalizzarne i manierismi.
Quello della casa guidata dal sornione ideologo/regista Mariano Llinás rappresenta infatti il progetto di un fare-cinema nuovo, prima che banalmente “bello”: una filmografia che non somiglia a nessun’altra, divisa tra una manciata di kolossal no-budget e una produzione più o meno continua di esperimenti, corti, documentari. Trenque Lauquen è il film che consacra oltre il Sudamerica una delle proposte più originali e innovative di questo millennio cinematografico - programmaticamente, con il più accessibile capolavoro del gruppo.
Per i pochi e riservati adepti di questo bizzarro culto, Trenque Lauquen si accompagnava ai toni da film-evento già da prima del debutto lagunare. Anzitutto, il film rappresenta la magnum opus di Laura Citarella, membro fondatore del collettivo (assieme al già citato Llinas, il Dop Agustín Mendilaharzu e il montatore Alejo Moguillansky), da sempre presente in firma alla maggior parte dei lavori della casa. Dopo un paio di piccoli lavori di riscaldamento, l’autrice ha recuperato alcune suggestioni del suo esordio Ostende (2011), per cimentarsi finalmente con un anti-bluckbuster personalissimo e trionfale.
In secondo luogo, Trenque Lauquen è da considerarsi prosecuzione ideale di Historias Extraordinarias (2008), capolavoro contemporaneo e pietra angolare dell’intera produzione. Entrambe le opere si animano del medesimo paradosso: porsi come articolatissimo film “di trama” (thriller, nientemeno), impenetrabile ragnatela narrativa di twist e personaggi, e al contempo come negazione stessa del concetto. Così Trenque Lauquen assembla un affresco romanzesco sconfinato salvo squarciare un buco al centro della tela, suggerendo l’importanza strutturale della fallacità al cuore della narrazione. Controsenso o no, è la grande intuizione che il Pampero eredita dal romanzo postmoderno (e dalla sua grande scuola sudamericana, dall’ovvio Borges a Bolaño - sfiorata al cinema recentemente da Raúl Ruiz e indirettamente dall’europeo Miguel Gomes): storie-macchine la cui perfezione formale è funzionale non a chiudersi in una spiegazione, quanto ad aprire spazi vuoti.
Lo spettatore all’avventura entri in questa particolare terra del mistery con l’anima in pace: Laura (Paredes, moglie di Llinas, volto ricorrente e omonima dell’autrice: non fosse la realtà documentata, sembrerebbe una delle tante false piste investigative con cui questi film amano giocare), Laura è sparita. Ha mollato la macchina del collega Ezequiel in un’area di sosta, allontanandosi a piedi per le lande argentine. Il doppio film segue a ritroso la malinconica indagine di Ezequiel, innamorato di lei, e di Rafa, suo fidanzato, determinati (ma neanche tanto), come lo spettatore, a riempire i buchi, unire i punti, trovare un senso a un vuoto (Laura stessa, e la sua abdicazione al proprio ruolo nel plot) che non ne ha. Due film, due indagini, due possibili complotti vouyeur-spionistici a ricostruire la storia della donna: la corrispondenza segreta di Carmen Zuma, misteriosa insegnante senza volto vissuta mezzo secolo prima, scoperta da Laura tra i libri della biblioteca locale; la comparsa di una felliniana creatura degli abissi nel lago locale, catturata e allevata in un laboratorio segreto da una coppia di biologhe clandestine.
Come da molti evidenziato, la centralità femminile è l’altro grande tema di Trenque Lauquen. Non si tratta di osservazioni contenutistiche spicciole: le qualità formali ereditate da Historias Extraordinarias, per quanto rivoluzionarie rispetto a pressoché qualunque altra proposta del cinema contemporaneo, da sole non porrebbero il film al di là dei maggiori exploit della casa argentina. Erano questi racconti collettivi, re-immaginazioni di un Paese e della sua storia, in cui il trope del “protagonista” implodeva come marionetta vuota. Trenque Lauquen, invece, è la sua protagonista: Laura inchioda il flusso del racconto a un punto di capitone emozionale, strumento di decodifica tradizionale che altre opere sacrificavano alla vertigine della narrazione reticolare e senza centro (di questo slancio entropico, La Flor fu forse l’apoteosi). Al contempo, Laura è l’incognita irriducibile a nulla, i cui amanti-investigatori cercano invano di ricondurre a un orizzonte di senso comprensibile - trinità di ruoli sessualizzata, la cui lettura femminista non è dunque campata in aria.
Paradosso nel paradosso, Laura è tutto questo non-essendoci: laddove i precedenti lavori del gruppo deliravano schizofrenici nella profusione di centri narrativi, Trenque Lauquen trova un prezioso “senso del film” nell’esplicita negazione dello stesso.
Quindi, Laura è sparita. È andata e basta, per quelle pampas argentine che il Pampero Cine ha da sempre indicato come nuovo West della postmodernità esplosa, orizzonte fantastico dove la torma delle identità sociali si risolve nella rinuncia a ognuna e la fuga nel nulla. Solo qui Laura può sparire dal cinema e diventare uno dei personaggi leggendari delle sue stesse ricerche, miti fondativi di un’umanità dispersa senza più (una) Storia, ma ancora appesa al suo infinito raccontarsi.