Destinazione: Lecce. Missione: 14° Festival del Cinema Europeo (diretto da Alberto La Monica e Cristina Soldano). Il mio treno arriva in città in orario, e non ho altro tempo per divagazioni, per perdermi. Cerco di non tradire le intenzioni di partenza, ma devo essere rapido ché Lecce è stranamente più grande (resta tranquilla, però) di come la ricordavo. In orario, dicevo. Sfiorerò per cinque secondi al massimo la mia camera e sarò di nuovo fuori. Ecco che (puntualmente, sì) mi accorgo di aver esagerato, già riesco a dare un ordine e un nome alle strade (a quelle che dovrei conoscere e a quelle necessariamente da imparare). Tutto, subito, diventa più facile, più familiare. E sono pronto. Anzi, ora mi scopro addirittura in anticipo. Parentesi di nicotina abbondante e approdo alla mia prima visione festivaliera: un approdo quasi casuale, inaspettato rispetto a quel programma personale costruito con scrupolo e già, irrimediabilmente, compromesso…
Eccolo, l’“evento anteprima” della giornata: Vive le Rock di Alessandro Valenti, prodotto dalla Saietta Film di Edoardo Winspeare e Gustavo Caputo, mockumentary (anzi rockumentary) di 46 minuti incentrato sulla figura di Alex (Donato Del Giudice), hypster 35enne con l’ossessione e la nostalgia (impossibile) del punk. Perdono sempre i suoi supereroi, racconta la voce del protagonista, personaggio (persona, anzi) non solo fuori tempo – la sua generazione è arrivata troppo tardi per il punk – ma soprattutto “fuori luogo”, anche nella cornice dell’Italia Wave Love Festival del 2011, mentre aspetta l’esibizione di Lou Reed (che non vedremo). Il supereroe perdente è l’immagine di un superman steso senza vita sull’asfalto, perché i Clash, i Sex Pistols e i Ramones sono i cardini di qualcosa che in Italia non c’ è mai stato, di un immaginario musicale giunto qui solo di riflesso, mai diventato cultura, ora imbalsamato dentro YouTube. Alex affida le sue speranze di “riscatto” a una giovane rock band (brasiliana!), i Vivendo do Ócio, in trasferta italiana, diventati ben presto suoi amici, ma alla fine non gli resta che l’evasione fantastica, la fuga fanciullesca in un altro “altrove” dove finalmente trovarsi. Perché non ha nulla, non può essere o avere nulla di “mitico”, va da sé, il protagonista di Vive le Rock, non può essere, mettiamo – per restare alle ultime uscite in sala e a storie, a zone visive in qualche modo analoghe –, L’ultimo pastore di Marco Bonfanti. Quello che manca al film è invece forse un reale spessore, una “forza”, un abbaglio duraturo. C’è il cuore, la voglia di raccontare, e non possiamo che affezionarci anche noi ad Alex (a Donato), a quella che è in realtà la sua vita. E va bene. Sarebbe stato (più) bello però non tanto saperne di più, anzi proprio no, ma poter “immaginare” di più.
Ora c’è dell’erba tremula, schiaffeggiata dal vento, sullo schermo. Inizia Silent Ones (Olanda/Ungheria, 2013), fra i dieci film in Concorso, lungometraggio d’esordio della giovane Ricky Rijneke. Ci sono una giovane donna, Csilla, e il suo fratellino Isti, che si perdono. Un incidente automobilistico in mezzo al nulla diventa il motore del racconto. Ora lei deve trovare lui e finisce su una nave mercantile. Ma sapremo (vedremo) anche del loro errare quando erano insieme. La regista sostiene di aver tentato di realizzare un dramma che non fosse tutto il tempo guidato da una storia. In effetti Rijneke sembra cercare una sorta di sintesi al femminile fra i Dardenne e Bruno Dumont, giungendo forse, quasi naturalmente, a territori più vicini all’Ursula Meier di Sister, con il cinema di Kelly Reichardt in ideale sovrapposizione. E a quell’erba tremula il film tornerà, dentro un percorso inverso di finta circolarità ma fatto piuttosto di fughe orizzontali e laterali fino a quel corpo nella nebbia, (come) un fantasma, prima dello schermo bianco finale, in un racconto di crudeltà e dolcezza, rarefatto, brumoso eppure limaccioso, “sporco”, vivo, schiumoso, violento come il dolore di una separazione e leggero come il nudo corpo disincarnato di Csilla. Un film che anzi avrebbe potuto raggiungere esiti ancora più felici se la regista (anche sceneggiatrice) avesse avuto più fiducia nelle sue immagini, mentre ha lasciato che fosse la parola, la voce interiore della protagonista a spiegare e a occupare quegli spazi e quei vuoti suggeriti dalle immagini dove invece è l’occhio spettatoriale e critico che dovrebbe insinuarsi, cercare, mettere insieme anche, anzi soprattutto, quello che non c’è. Detto ciò quello della Rijneke resta un esordio davvero molto interessante, persino sorprendente.
Il secondo film in concorso visto in giornata ha per protagonista una ragazza con la bicicletta, a proposito dei Dardenne summenzionati, studentessa di canto classico che ritrova il padre da sempre ignaro della sua esistenza in 11 Meetings with My Father (2012) del greco Nikos Cornilios. Dopo le prime difficoltà, inizieranno a conoscersi… Si tratta “di un pretesto per provare a catturare in pochi istanti del film qualcosa della bellezza di questo duro mondo che ci sfugge sempre”, raccontano le note di regia. E in effetti anche la pellicola sembra rincorrere la sua bellezza, una piccola armonia interna nella sua programmatica semplicità, ma resta purtroppo abbastanza piatta, prevedibile, priva di scatti o imprevisti, senza che sia possibile mai sentire i personaggi e le loro vibrazioni. E non bastano lacrime e respiri affannati per vivere. Peccato, perché la scena finale ci informa di un regista che avrebbe potuto fare molto di meglio.