Penultimo giorno di festival e già so che tutta questa consuetudine (sala, incontri, opinioni, scambi continui e tavole condivise) mi mancherà. Qui, in questo caldo Sud (Europa, Italia, Puglia), a Lecce, piccola città maxischermo, dove convergono visioni e storie diverse, mood così lontani eppure scoperti così vicini, lingue e sguardi sconosciuti, anche quelli davvero in attesa di essere accolti, ascoltati, visti e rivisti. Angoli, curvature da scoprire e viaggi da iniziare.
Il primo di oggi mi trasferisce in territorio conosciuto solo sulla carta. Muccino ne L’ultimo bacio aveva provato a ragionare sulla generazione di trentenni (la sua) che a crescere non ce la fanno. Cambiate latitudini, in una Norvegia poco brumosa e persino cool, il dilemma del passaggio all’età adulta si ripresenta con un film in concorso, The Almost Man di Martin Lund, regista che a sua volta dichiara di far parte di una generazione che si è “permessa di bighellonare per molto tempo, ritardando l’essere adulto, e invece di fare il cretino, crescere una volta per tutte”. Benvenuti in Italia, nazione dove questi temi sono pane quotidiano, di studi sociologici e non solo. Henrik ha trentacinque anni ma continua a rendere perdurante il sogno di gioventù. Neanche l’annuncio di prossima maternità della sua fidanzata riesce nel prodigio di farlo crescere d’un botto. Adolescente rimane e questo non sembra neanche turbare troppo la sua partner in un eccesso di ipercomprensione. Fino a quando però la paziente Tone non organizza una serata con amici e colleghi nella loro nuova casa ed Henrik preferisce non esserci, uscendo con vecchi compagni di scuola e andando così a perpetuare quello che ora appare come un preoccupante e anomalo stato di fuga dalla realtà e da se stessi. “Volevo fare un film che catturasse uno stato d’animo, seguendo un uomo in difficoltà che finora è stato nella sua bolla di stupidità” racconta Lund e, in effetti, non trascura sarcasmo e cattiveria nel ritratto del suo anarchico, inetto, goffo Peter Pan allupato, fra una pisciata nell’automobile di sconosciuti e una “scopata” tra due pantofole a forma di cane… Nella convivenza di dramma e commedia al grottesco, Henrik Rafaelsen, l’attore protagonista, omonimo del personaggio, riesce a risultare efficacemente sgradevole fino a “salvarsi” in un finale che depotenzia il graffio assestandosi su toni più dolci. Tuttavia sebbene non manchino spunti di interesse, scene e intuizioni narrative apprezzabili, la pellicola non convince fino in fondo, e l’impressione è che resti quasi prigioniera della sua stessa idea, della sua tesi; tanto, insomma, da somigliare in un certo senso al suo antieroe, restando cioè sempre lì, sempre sull’ orlo, sempre almost. Indefinito. Inconcludente.
Da tutt’altra parte ci porta l’altro film in concorso, The Dream and The Silence del regista spagnolo Jaime Rosales. Una coppia in vacanza e un incidente che cambia le loro vite. Loro sono Oriol e Yolanda, un architetto e un’insegnante che vivono la loro tranquilla vita a Parigi con le loro due figlie. L’idea di fare un viaggio sul delta del fiume Ebro porterà la coppia a capovolgere le loro esistenze. La morte e l’elaborazione del lutto, ancora, come nel bellissimo Living di Vasily Sigarev, finora la vetta più alta fra le opere in competizione. E ancora, qui – come accadeva per altre vie, dentro un altro Cinema, nel film russo – si cercheranno nuovi sensi da dare alla realtà. Rosales si confessa: “Quando inizio un film, provo a fare in modo che tutto vada come avevo immaginato. Però i film sono fatti nel mondo reale con persone e cose reali. E il mondo reale non vuole prendere la forma che voglio, nonostante i miei sforzi. Mi ritrovo a combattere disperatamente contro tutti gli elementi. Niente vuole andare come lo immaginavo. La realtà non solo supera la finzione, è meglio”. E, infatti, ecco il suo film “stanziale” – camera fissa e tempi dilatati – ma in realtà mutevole, in una nascosta torsione continua; bianco e nero e attori non professionisti; mentale e umanista, “vero” e astratto, intersecazione incontrollata e fluida di spazi, tempi, forme, “passaggi”. Dietro lo stile apparentemente raffreddato, essenziale, quasi entomologico, l’immagine è porosa, si dà all’occhio per essere violata, schiusa.
Anche solo per ritornare ai colori, dopo mi trovo a pochi chilometri da Lecce insieme ad altri: buio, poi un capannone, luce ma visibilità quasi azzerata e parte la musica. Sul palco i Djaguaros, curioso gruppo di attori-suonatori. Il frontman è Paolo Sassanelli, la guest Giorgio Tirabassi. Producono suoni dall’est Europa perlopiù, mentre io vedo insospettabili individui di mia conoscenza gettarsi, goffamente e coraggiosamente, nelle danze. Una macchina, dopo l’autobus all’andata, sta portando via me e qualcun altro per tornare in albergo; siamo rimasti in pochi ma prima di andare c’è un noto regista (g)locale a chiedermi un favore: “Puoi andare dietro ché io ho il problema del vomito?” E tutto diventa stranamente più rassicurante.