Seconda giornata: mal di testa e primavera non aiutano. Fa più caldo e i riflessi, l’andatura, l’umore ne risentono. Litri di acqua liscia mandati giù, un gelato, piacevoli chiacchierate con sconosciuti, conoscenti dell’ultimo minuto e qualche amico, e già sto molto meglio. Arrivo al cinema Massimo. Stavolta niente cambiamenti o divergenze, il programma è rispettato. Entro.
Sala 4, sezione “Cinema e realtà”, anteprima di Vita da non morire mai, girato fra 2009 e 2012, della documentarista napoletana Silvana Maja, autrice fra l’altro di Ossidiana (2007), sulla vita della pittrice Maria Palliggiano. Qui, invece, tre ritratti di vita a contatto ravvicinato con la morte, tre donne colpite dal tumore (Silvana Leonardi, Carla Maja e Francesca Palombelli) si raccontano alla regista, sorella di Carla e amica delle altre due. E si raccontano liberamente, ecco l’aspetto più interessante di questo lavoro, non si avverte la benché minima forzatura, nessuna ingerenza di chi sta lì ad ascoltare, ad accogliere quei corpi segnati dalla malattia, quelle parole e, soprattutto, quelle emozioni che variano per scatti minimi come in un girotondo dolcemente scomposto attorno alla paura, alla rassegnazione e alla speranza. In un certo senso, è come se le protagoniste fossero le registe di se stesse, a dettare loro i tempi, i ritmi, le pause, i silenzi. E La pelle violata dal cancro, i corpi gonfiati o spogliati di carne sono qui solo istanti, impronte. Spiega la Maja:“Mi interessava parlare dell’aspetto perturbante della malattia (…) Ho sentito che questa parte di dolore poteva servire a noi che raccontiamo, a chi si ammala per cercare la ragione profonda del male, allo spettatore per domandarsi il senso e il perché”. Tutto questo, con delicatezza, ironia, cuore e coraggio (il suo e delle “sue”, nostre, donne). Con quella leggerezza necessaria a raccontare il dolore, quello di chi forse ce l’ha fatta e ce la farà e quello di chi il suo viaggio l’ha finito.
Ancora vita e morte, passando al Concorso e a territori espressivi (e geografici) assai lontani: il bellissimo Living (Zhit) di Vasily Sigarev, classe 1977, al suo secondo lungometraggio dopo Wolfy (2009) esponente molto interessante di quella nuova generazione della cinematografia russa che da circa un decennio si sta dimostrando fra le più valenti e originali nel panorama non soltanto europeo. Sigarev così sintetizza la genesi dell’opera: “Ho avuto i primi flash di questa storia quando avevo dodici anni. Un giorno, andando a scuola, sono passato davanti a una massa scura di gente, affollata di fronte a una casa dalla facciata di marmo. Non si stavano muovendo, li ho superati, sono salito al secondo piano e sono entrato in un appartamento con tovaglie e lenzuola che coprivano tutti gli specchi. E sono diventato un’altra persona. Non vi dirò cosa ho trovato. Voglio che lo vediate da soli nel film”. Ecco, proprio qui risiede il maggiore fascino del film, perché quella che vedremo non sarà un fumoso capriccio velleitario ma un’opera certo quasi impermeabile alla decostruzione immediata pur nella sua struttura abbastanza lineare, un oggetto che resta misterioso, spigoloso però mai respingente, anzi, stranamente ipnotico e sospeso insieme, di quei film che più di altri lasciano la libertà allo spettatore di “entrare” e “uscire”, “rientrare”. Crudo realismo, sangue e violenza ma anche fantasia e l’urgenza del paradosso in tre storie parallele dentro scenari suburbani, ai margini: una giovane coppia che si sposa, un ragazzino in una casa-prigione, una donna alcolizzata e le sue due figlie gemelle. E la morte. E i morti che (ri)tornano, di nuovo vivi. L’assenza, la perdita e comunque il dovere, in qualche modo, in qualche forma, di sopravvivere. La poesia scalda il referto, mentre freddo e neve restano sullo schermo.
Dalla Russia alla Polonia, da Living a Loving (Milosc) di Slawomir Fabicki: una storia – sostiene il regista – “su vari aspetti dell’amore: responsabilità, gelosia, perdono empatia e la loro assenza”. Una coppia borghese, Maria e Tomek, e la loro vita felice distrutta: lei, incinta, verrà stuprata dal sindaco della città, nonché suo capo, che la ama perversamente. La nascita della bambina e la crisi sempre più acuta fra moglie e marito, le gradazioni in aumento di sofferenza e incomunicabilità, separazione, tradimento, la morte (ancora, anche qui) delle persone care che li avvicina di nuovo, fino alla riconciliazione finale, all’amore e alla felicità che ritornano. A un nuovo inizio. Un itinerario del dolore con tutte le fermate e le ripartenze del caso ma che di rado si fa vera progressione drammatica, non per demerito degli interpreti che fanno ciò che possono e anche abbastanza bene (lui soprattutto), ma per una scrittura abbastanza convenzionale che si traduce in immagine tiepida, già nata stanca. Il film finisce, la sala sta per chiudere e la mente è già altrove, ancora a cercare altro quando è già tardi; torna indietro, la mente, pensa a Living e a quello che Living sarà, fra qualche giorno, fra qualche ora. Tutto va bene, adesso (o forse no).