Oasis
Un canto d’amore e un’accusa: Lee Chang-dong travolge con l’impetuosità melodrammatica di una storia d’amore impossibile le convenzioni ciniche e brutali di una società perdente, sospesa tra l’atemporalità dell’oggi e del domani.
È comodo, quando si sente la necessità di inquadrare un oggetto d’arte, utilizzare il termine “poetico” a sottolinearne gli ipotetici caratteri che lo avvicinerebbero al tono della composizione in versi, quel mestiere di sfruttare i piccoli incidenti del reale astraendoli, per farne una metafora, il simbolo di un significato più puro, più chiaro. Non sempre l’operazione, tuttavia, è tecnicamente avvicinabile alla modalità poetica, metro di paragone in senso lato, più che specifico.
Ci sono dei momenti, nel cinema di Lee Chang-dong, che avvicinano la prosa (cinematografica) alla poesia. Letteralmente: sono elevazioni liriche, aperture potenziali, suggestioni, che somigliano da vicino al procedimento di esaltare un’informazione banale del reale per farne la traccia di un’esistenza in fieri, o soltanto in potenza. Succede spesso che in Oasis, la sua terza opera, alcuni dettagli del quotidiano (specialmente quello della giovane protagonista disabile) scappino dalla via ordinata del racconto per essere qualcos’altro, qualcosa che può solo essere interpretato, non conosciuto, spiegato, talvolta solo sentito; cioè una figura, anche riconoscibile, che ha come unico scopo quello di creare delle immagini (sulle immagini). E ritornano anche in Burning, con i giochi di luce sul muro che il giovane protagonista Jong-su riesce a cogliere come un attimo fortuito e al tempo stesso definitivo, la visione iniziatica, l’imprinting, il timbro che, in un certo senso, lo porterà a compiere tutti i suoi gesti da lì in poi. Punteggiature.
In Oasis le impressioni poetiche descrivono il mondo interiore della protagonista Gong-ju, anzi, sono la vita stessa che ella consuma in una casa-caverna come una contemporanea Kaspar Hauser, dove interlocutori e abitanti sono i riverberi di luce di uno specchio a mano, le ombre degli alberi che da fuori la finestra proiettano filamenti spettrali su un piccolo arazzo dalla decorazione etnica, un tableau vivant costituito da una giovane donna indiana, un elefante e un bambino. È così che le particelle di rifrazione solare si tramutano in una colomba bianca (diremmo il contrario, una colomba bianca ci introduce nell’appartamento per poi spogliarsi nel dato fisico della luce) e ancora, dopo, in una piccola compresenza di farfalle bianche svolazzanti. Volano in uno spazio ristretto. Questo è quello che vede Gong-ju, è quello che desidera, cullata dalle voci continue e ronzanti provenienti dalla radio, che l’accompagnano nel sonno: viviamo con lei i giorni della sua prigionia fisica, mentre, impariamo presto, la mente e il cuore funzionano alla perfezione.
Gong-ju è poco accudita dalla sua famiglia, che affitta un appartamento a suo nome mentre le sue cure sono appaltate a una vicina sufficientemente scrupolosa, ma che non le fornisce una presenza continuativa e amichevole. A Gong-ju danno da mangiare come a un gatto. Gong-ju non chiede niente, non vede quasi mai il cielo, ma sa come funziona il mondo.
Le divagazioni surrealiste di Lee Chang-dong stanno in punta di piedi: le colombe e le farfalle non si trasformano mai in uno stormo; Gong-ju e Jong-su non corrono a perdifiato urlando ciò nonostante e a tutti polmoni «ganbare», come in un film di Sion Sono. In Oasis, il dramma che si verifica ha una spinta vitalistica e un incedere tragico che mai si tramuta in un eccesso di pathos, in una cacofonia di segni e accumulazioni che declamino lo stordimento di una realtà impermeabile all’Alterità, tutta concentrata a rimanere nei binari dell’accettabile e dell’utile. Lee Chang-dong non alza mai il volume; in tutti i sensi, giacché lo stesso impiego musicale, pressoché assente, è calibrato in corrispondenza di un momento che si direbbe onirico – e, ancora, poetico. L’oasi dell’arazzo si anima, la trasposizione immaginifica di Gong-ju è resa sfondando drasticamente il confine con il piano di realtà: Jong-su è entrato nella sua vita, è innamorata.
Due solitudini si incontrano. Jong-su sente, inevitabilmente, ben prima di conoscere la ragazza, il click di un riconoscimento esistenziale che altrove, per lui, semplicemente non esiste. Se c’è qualcosa su cui Lee Chang-dong calca sono le linee narrative che descrivono la condizione di frustrazione, mortificazione drammatica di Jong-su: trattato come un disabile, inadatto a incastrarsi nei compartimenti stagni richiesti dalla famiglia-società (in toto), quando, a ben vedere, è la società stessa a farsi inerte, monca, inadeguata a seguire e a monitorare con amore la vitalità, l’esuberanza, l’iperattività, il turbinio girovago, apparentemente sconclusionato, “balordo” di Jong-su. È Jong-su ad assumersi la responsabilità di un crimine fattualmente compiuto dal fratello (quello che vede la morte del padre di Gong-ju); è Jong-su a prendersi cura di lei, dopo aver agito in maniera spostata e sacrilega tentando a tutti gli effetti uno stupro. È Jong-su a muovere i gesti di scusa e di pentimento, offrendole un mazzo di fiori, sebbene non fosse spettato a lui. È Jong-su a chiedere che venga ripetuta l’azione della preghiera salvifica per un’anima persa (la sua), salvo aprire e alzare gli occhi al cielo durante il raccoglimento, riconoscendo l’empietà e la vacuità dell’atto. Jong-su è la cartina tornasole di tutto il malessere di una società della quale egli è scarto e alla quale, al contempo, si sostituisce.
È chiaro che Lee Chang-dong assegni alla diversità il testimone di un ottimismo sepolto sotto i segni negativi degli eventi, perché è in quelle solitudini che ha fiducia. E allora c’è spazio, senza paura, per il romanticismo, per l’espressione del corpo, per quel ritrovarsi identici a un primo impatto: Jong-su si accovaccia per porsi all’altezza di Gong-ju (è l’unico a farlo), e le sue smorfie nervose e insaziate si rispecchiano, tramite il controcampo, nei tremori della sua disabilità. I corpi sono i re e le regine del cinema di Lee Chang-dong: ad essi si avvicina più che può, senza toccarli troppo, sempre col timore di scalfirli, conscio della loro impenetrabilità; i volti, su cui spesso e volentieri sorvola dall’alto, incontrandoli nell’asciuttezza mobile della sua regia, mai maldestra nel soppesare virtuosismo e rigorosità. L’unico modo per permettere all’attimo poetico di levarsi è quello di un realismo minimale, ma mai narcolettico o disciplinato, bensì aperto al prelievo del reale che evade, si trasforma, diventa sogno, possibilità: Gong-ju si alza, replica la mossa dell’amante che è seduta di fronte a lei sul vagone della metropolitana, con una bottiglia di plastica vuota colpisce Jong-su, vezzo ironico del suo amore; vorrebbe, saprebbe come, non può. Lee Chang-dong distilla così il sentimento irrealizzabile.
La cecità ai colori, a questi colori, è la nostra, quella di una società che fraintende un atto di amore con un abuso sessuale, e ancor peggio si dimentica, non pensa di chiedere, di dare il tempo affinché la domanda su quanto è veramente accaduto possa essere accolta ed esaurita: Gong-ju ricerca la vicinanza sensoriale, non la subisce; Jong-su non riesce a spiegare (come potrebbe?) la natura consenziente della loro unione. Il loro mutismo di fronte all’avversità che li colpisce è tutto fuorché deficitario; appare quasi una scelta, quella di una chiusura nell’intimità volta a proteggere e rispettare il loro mondo. L’unica esplicitazione d’intenti (e di sentimenti) non può che essere diretta l’uno verso l’altra – come nella straziante scena finale - in un dialogo esclusivo e biunivoco, e non in virtù di una legittimazione agli occhi di una collettività che non li ha mai visti veramente.
L’ineluttabilità della tragedia che prende atto non necessita di chiose, di spiegazioni, di chiusure che facciano quadrare i conti: l’emarginazione è destinata a perdurare, l’inconciliabilità mastodontica tra i due mondi è fattuale, endemica, situata all’interno di una struttura endogamica, castale. Tuttavia, il senso inossidabile del melodramma giace non solo nella critica feroce alle istituzioni di riferimento; crediamo cioè che l’impeto espressivo, del tutto umanista, di Lee Chang-dong sottolinei, come una missione, le possibilità. Le possibilità degli incontri, terminali e perituri che siano, delle vicinanze, del potersi toccare anche mentre fuori tutto è morente.