Secret Sunshine
Lee Chang-dong mette in scena il dolore assoluto della perdita di un figlio, facendone una metafora metacritica dell'essere umano che cerca e combatte allo stesso tempo lo sguardo di Dio.
Sembra quasi banale notare come il primo elemento che salti agli occhi guardando Secret Sunshine sia la notevole, quasi insopportabile luminosità delle sue scene in esterno. C’è tantissimo sole, bianco e accecante, per le strade della città di Miryang, il distretto sudcoreano dove Lee Shin-ae si trasferisce insieme al figlioletto dopo la morte del marito, che lì vi era nato. Poiché Miryang significa appunto “secret sunshine”, lo splendore segreto, la scelta estetica di Lee Chang-dong parrebbe un gesto stilistico fine a sé stesso, se non fosse che più il film prosegue, più si intuisce, con una certa inquietudine, di essere di fronte a uno sguardo che incastra nell’inquadratura cinematografica un significato astratto più complesso della pura immagine offerta allo spettatore.
Questo splendore nascosto è anche qualcos’altro, una sorta di pace interiore, di nuovo inizio, che la protagonista ricerca dopo l’esperienza del lutto. Invece, in una rapida progressione tragica, la morte le si ripresenta in una forma ancora più devastante: il figlio viene prima rapito e poi ucciso. Dopo un periodo iniziale di assoluto dolore e smarrimento spirituale, Shin-ae si getta nella fede religiosa, trovando l’oblio nell’idea che bisogna accettare tutto ciò che proviene da Dio. Una pace momentanea, salvifica, che si interrompe bruscamente quando si trova di fronte all’assassino di suo figlio, che ha trovato a sua volta il sollievo dal senso di colpa nella religione.
La reazione di Shin-ae la porta sull’orlo del suicidio e del crollo nervoso: come può Dio perdonare prima di lei, come può privarla del potere curativo dell’assoluzione che di diritto toccava a lei, la madre dal cuore spezzato? Come può averla ignorata? Da quel momento in poi Secret Sunshine diviene la storia di una ribellione impazzita e dolente, un rabbioso dialogo diretto con il Padre Eterno che tutto vede senza proferire parola. Non bisogna pensare che si tratti di una reazione in fondo universale e frequente in un animo spezzato. Shin-ae chiede ripetutamente «mi stai guardando?» girando il volto sempre verso l’alto, perché ciò che non sa, in quanto personaggio di una storia, è che in realtà dovrebbe voltarsi verso la stessa macchina da presa. Il Dio crudele di Secret Sunshine coincide con il suo autore: lo sguardo freddo, clinico e distante è quello di Lee Chang-dong, colui che decide del destino della sua protagonista senza pietà verso le sue ingenue speranze.
È uno sguardo che comprende spesso ciò che Shin-ae non riesce a vedere, come il figlio che si nasconde o origlia dalla porta, una visione superiore priva di compassione e pudore, tranne forse un attimo di imbarazzo durante il ritrovamento del cadavere del figlio, ove Lee concede alla protagonista l’intimità dolente di un campo lungo, suggerendo soltanto ciò che lei sta effettivamente guardando. Per il resto il regista si sofferma in modo brutale e prolungato sull’espressione del dolore, un linguaggio fisico che snerva, irrita. mette a disagio. C’è in Secret Sunshine una sofferenza cosi diretta, istintiva, da essere quasi grottesca e fastidiosa, perché così è la vera disperazione: manca di poesia, di senso, di ideale, fa solo venir voglia di distoglierne lo sguardo. Shin-ae (una straordinaria Song Kang-ho, vincitrice a Cannes per la miglior interpretazione femminile) soffre fisicamente, vomita, ha rigurgiti, attacchi strozzati di tosse, urla a dismisura, e non c’è dubbio che la reazione immediata sia di prenderne le distanze quasi trovandoci da ridere, come una cosa ridicola ed esagerata. Non è un caso che l’assiduo corteggiatore che per tutta la storia insegue la protagonista - amandola in modo ottuso senza mai conoscerla - parli di melodramma comico, perché questa rappresentazione non mediata del dolore stanca e affatica proprio in virtù della sua autenticità, e rischia in ogni momento di perdere il contatto emotivo con lo spettatore. Secret Sunshine è quel tipo di film che non ha alcuna intenzione di venir incontro al pubblico, rischiando come molti altri di simile grana di essere accusato di autoreferenzialità ed esser preso poco sul serio, se non fosse che le ragioni di Lee Chang-dong, quei significati astratti nascosti nell’inquadratura e nella storia, sono troppo solide e tenaci per girarvi le spalle.
Lo splendore è segreto proprio perché Shin-ae non riesce a vederlo, a raggiungerlo, e nel momento in cui crede di averlo intravisto nel suo incontro con Dio lo perde di nuovo come ha perso il figlio, che anche da vivo perde spesso di vista. Secret Sunshine è la storia di un’anima che cerca un senso senza trovarlo, che forse solo alla fine riesce a contrapporre di fronte al caos degli eventi quell’esiguo, minimo libero arbitrio che la rende umana pur in mezzo ad eventi incontrollabili. Shin-ae si ribella a Dio/Lee Chang-dong che le scrive una scena di riappacificazione spirituale – lasciare che la figlia del suo assassino le tagli i capelli in una sorta di tregua/rinascita personale – ovvia e banale, esattamente ciò che ci si aspetterebbe per concludere una storia del genere; se non fosse che Shin-ae fugge dal salone e finisce da sola il taglio. Se non è possibile per le persone attingere al piano superiore, se si è destinati a rimanere ciechi e abbandonati, al massimo visti ma mai vedenti, che rimanga almeno quella lievissima facoltà di scelta che è tutto ciò che ci rimane su questa terra.
Per raccontare tutto ciò Lee Chang-dong deve giocare a fare Dio, deve creare il suo personale Giobbe al femminile e farne la metafora del dramma dell'essere umano qualora scelga la filosofia di vita più dolorosa che ci sia: una forma di resistenza inerte e quasi arresa, spezzata ma consapevole, alla natura, alla morte e al caso.