Minari
Una storia edificante e piacevole che trova il proprio lato debole esattamente nel suo non rischiare mai.
All’inizio di Minari Jacob Yi spiega al figlio il senso del proprio lavoro: si occupa del riconoscimento rapido del sesso dei pulcini allo scopo di dividere le femmine dai maschi in quanto questi ultimi, non producendo uova, sono considerati “inutili”. In virtù di questo ovvio dato di fatto sono pertanto destinati ad una morte rapida e impietosa, con tanto di ciminiera eruttante il fumo dei loro corpi carbonizzati. Dobbiamo cercare di essere utili conclude il padre, ignaro di aver appena elaborato una metafora molto efficace della politica economica neoliberista adottata dal presidente USA Reagan negli anni Ottanta. Il sogno americano, che prometteva la realizzazione dell’individuo tramite l’impegno profuso dallo stesso singolo cittadino, veniva calato entro un contesto sociale contradditorio: pur centrato sul diritto umano alla felicità era permeato da una sotterranea devozione al profitto senza scrupoli a discapito dei membri della società meno produttivi ed efficienti, benché aventi egualmente diritto sulla carta a un’esistenza dignitosa.
Su questa rete di contraddizioni in dialogo fra loro si fonda il film di Lee Isaac Chung, sviluppando l’idea di patria in una serie di immagini e similitudini che si respingono e si attraggono. Una famiglia coreana emigrata negli Stati Uniti si trasferisce dalla California all’Arkansas nel tentativo di inseguire un miraggio di indipendenza economica. Jacob vuole mettersi in proprio piantando e vendendo ai suoi conterranei esuli i prodotti tipici del loro paese d’origine. La moglie Monica si oppone, rimpiange la città e teme per la salute del suo figlio minore affetto da problemi cardiaci e trapiantato in un paese molto distante dalle strutture ospedaliere necessarie in caso di emergenza. Dopo l’ennesimo litigio si decide di ricorrere alla madre di Monica per avere un aiuto in più in casa, malgrado questa sia inizialmente rifiutata dai nipoti in quanto, come afferma il piccolo David, “puzza di Corea”. La patria originaria negata in favore del paese d’adozione dove si mangiano cereali e pasta, e le nonne fanno i biscotti; non come Soonja che fuma, guarda i combattimenti in tv e gioca a carte.
Questa nozione di patria è traducibile in un senso d’appartenenza e di familiarità che può emergere e attecchire anche in un terreno straniero e si materializza nell’immagine dei campi di ortaggi coreani coltivati da Jacob sul suolo americano, nonché dalla pianta del minari curata dalla nonna. La terra come una madre nutre e rafforza attraverso il cibo che produce, e da questo l’uomo trae anche la propria identità. In presenza di una situazione di duplice appartenenza a due paesi diversi avviene una sorta di contrattazione interiore che prevede l’accettazione o il rifiuto di determinate qualità di una cultura rispetto all’altra. Inizialmente David respinge Soonja e il cibo che ha portato in casa, per dispetto le fa anzi bere la propria urina, negandole ogni possibilità di relazione. A partire da questa prima fase l’evoluzione del rapporto fra nonna e nipote si articola come uno scambio di energie ove la vecchia in seguito ad un infarto vede il proprio cuore indebolirsi rendendole arduo ogni movimento mentre quello del bambino migliora concedendogli finalmente la facoltà di correre.
Un corpo che trasferisce la propria forza a un altro corpo, la terra straniera che offre quel cibo familiare che è anche una chance per il successo personale: è un movimento narrativo che per tutto il film avvicina e allontana le due coppie protagoniste (Monica & Jacob, David & Soonja) nell’equilibrio precario di un legame perennemente ridiscusso. Come le piante coltivate da David, cresciute fra mille ostacoli, così l’identità della famiglia Yi si forma a tentoni, assorbendo suggestioni mischiate di sapori e linguaggi differenti.
Opera talmente gentile da non poter non risultare apprezzabile, Minari pone troppa fiducia nella propria poeticità fatta di piccoli eventi garbati rimanendo intrappolato in una visione che commuove senza rischiare. Non sono in discussione le qualità peculiari del film di Lee Isaac Chung, dalla recitazione (Yoon Yeo-jeong ha vinto un Oscar come miglior attrice non protagonista per il ruolo di Soonja) allo sviluppo della storia, ma la sensazione di trovarsi di fronte a un racconto cesellato secondo un consapevole modello delle figure narrative di successo (la nonna eccentrica, il nipote malato di cuore) impedisce un totale abbandono alle emozioni che suggerisce. Ciò nonostante Minari non manca il colpo e si afferma come film che attrae nel suo svolgersi, anche se al termine le immagini che lascia nel ricordo rivelano radici meno potenti di ciò che facevano presumere.