Gli amori immaginari. Quelli che esistono solo nella tua testa, quando per un gesto o una parola che sembra dire di più si fantastica su una relazione concretamente univoca. Questo è quello che accade nella mente di Marie e del suo amico gay Francis, entrambi invaghitisi di Nicolas. Il biondo adone sembra caldeggiare questa passione, sia per l’uno che per l’altra, ma quando si tratta di parlare con franchezza, il gioco non vale più la pena di essere portato avanti, e il castello d’amore dei due pretendenti crolla perché illusorio. Nel mezzo, come una sorta di siparietto, appaiono e scompaiono delle confessioni sentimentali fatte da un gruppo di ragazzi estraneo alla vicenda, in un’atmosfera quasi da riunione di alcolisti anonimi. In fondo, Les amours imaginaires (tradotto orribilmente in inglese con Heartbeats) è tutto qui. O meglio, sarebbe tutto qui per chi badasse solo alla sostanza della pellicola. Ma un film non basa la sua essenza unicamente sulla trama in esso narrata.
Innanzitutto, per andare a guardare più da vicino la creatura filmica costituita da Les amours imaginaires, non si può che partire dal creatore. Su Xavier Dolan ormai si trova scritto ogni bene (o quasi). Questo giovane, anzi, giovanissimo (classe 1989) regista canadese, muove i suoi primi passi ancora bambino come attore di spot pubblicitari per poi calarsi nel ruolo di doppiatore (nelle versioni francesi di South Park, Harry Potter, Twilight). A 19 anni decide di passare dietro la macchina da presa e dirige il suo primo lungometraggio, J’ai tué ma mère, a sfondo autobiografico. La pellicola viene selezionata per la “Quinzaine des Réalisateurs” al Festival di Cannes 2009, dove vince tre premi: Premio Art Cinéma, Premio SACD e Premio Regards Jeunes. Sull’onda di tali riconoscimenti, Xavier si appresta a realizzare questo Les amours imaginaires, sua opera seconda che lo vede di nuovo anche nei panni di sceneggiatore e interprete. Il film viene presentato in anteprima al Festival di Cannes 2010, nella sezione “Un Certain Regard”. Agli occhi di tutti, ormai, Xavier Dolan appare per quello che è: un giovane talento della settima arte.
Perché ciò è di fatto innegabile. Guardando questa sua seconda pellicola, quello che colpisce è la sicurezza con la quale Dolan conduce la sua macchina da presa. Riprendere vuol dire scegliere cosa mostrare e cosa celare, ma anche il modo in cui farlo. E lui è perfettamente a suo agio nel decidere. Ogni inquadratura sembra al suo posto: non c’è primo piano o panoramica che stoni. Le immagini in slow motion accompagnano lo svolgersi della trama senza intoppi, e la scelta dei soggetti di alcune scene mostra delle precise tendenze stilistiche (a questo proposito, come non stupirsi della pioggia di marshmallow sui riccioli d’oro di Nicolas!). È proprio questo che salta all’occhio: lo stile innegabile di Dolan. Ma forse è su questo che bisogna spendere una riflessione in più. Perché se è vero che Dolan ha stile, è altrettanto vero che non è del tutto il suo. Guardando le immagini di Les amours imaginaires, almeno due sono i collegamenti che spontaneamente si è portati a fare: la Nouvelle Vague e Tarantino. La prima, presente non solo foneticamente (la lingua francese degli interpreti), è chiaramente evocata dal triangolo amoroso che strizza l’occhio al più celebre rapporto a tre di Jules e Jim. Ma non solo: nella leggerezza esistenziale dei personaggi (una leggerezza comunque di facciata), nel taglio retro di alcune scene (in cui primeggiano gli abiti di Marie), nell’utilizzo a volte di un certo tipo di montaggio (quasi richiamando il jump-cut), sembra di poter scorgere le figure di Godard e compagni. Sempre retrò è la scelta della colonna musica, con il Bang Bang della versione di Dalida che si riallaccia a quella di Nancy Sinatra usata da Tarantino. Il regista americano è qui presente non solo per la scelta di canzoni d’epoca, ma anche per la concezione dell’inquadratura come fosse un’icona, una foto esaltata ed isolata nella sua figuralità. Non c’è ovviamente nulla di sbagliato nell’utilizzare degli stilemi altrui all’interno di una propria pellicola. Ma quello che forse manca a questo giovane regista è la riformulazione di tali stilemi, una riformulazione necessaria affinché il linguaggio cinematografico usato si nutra sì di sillabe altrui, ma per creare così delle parole nuove, allontanando in questo modo lo spettro della citazione che può divenire a volte una presenza ingombrante.
Tutto ciò va considerato, ovviamente, tenendo in conto che quella di Xavier Dolan è una figura professionale appena agli inizi (dato il numero esiguo di sue pellicole), con un percorso artistico ancora tutto da compiere. Se l’esordiente regista aggiusterà il tiro, non c’è dubbio che si sentirà ancora parlare di lui.