Liberaci dal male
Un racconto di orrore metropolitano in cui la possessione demoniaca intreccia la sua strada con il poliziesco, in un alternarsi di detection e spavento che nell’insieme funziona
Nel nuovo film di Scott Derrickson l’esorcismo diventa quasi una malattia urbana, una patologia che stringe nella sua morsa l’intero tessuto cittadino. E come era già in Sinister, anche qui l’origine dell’infezione è l’immagine, un linguaggio che come l’Aklo di lovecraftiana memoria rende possibile il contatto tra il nostro mondo e una realtà altra, origine di orrori nascosti poco oltre la soglia. Recuperando l’immagine cupa, piovosa e disperata di Seven, Liberaci dal male imbastisce così un racconto di orrore metropolitano in cui la possessione demoniaca intreccia la sua strada con il poliziesco, in un alternarsi di detection e spavento che nell’insieme funziona. Tuttavia quella che per Fincher era la crisi morale dell’individuo spersonalizzato (John Doe) con Derrickson diventa una più banale ricerca per la riconquista della fede. Il detective impersonato da Eric Bana (poco espressivo ma non importa perché conta la sua fisicità pesante e poco aggraziata) è infatti il protagonista di un percorso di rinascita spirituale, un viaggio dell’eroe che deve risalire dall’inferno della violenza urbana per vedersi perdonare i propri peccati e ritrovare il proprio io. Ad aiutarlo nel percorso di riconversione un prete decisamente sui generis (Edgar Ramirez), nel quale il tormento e l’ansia di autodistruzione convivono con la ricerca di una pace esistenziale.
Valido mestierante, Scott Derrickson continua con Liberaci dal male ad esercitare un horror affascinante, tecnicamente ineccepibile. Il suo cinema però si ostina a vivere di momenti e singole sequenze, di atmosfere curate secondo tutti i crismi del genere ma incapaci di portare a qualcosa di grosso nel loro insieme. Se Sinister perdeva la sua seconda parte inseguendo idee stantie e soluzioni visive imbarazzanti (il demone estremamente posticcio), Liberaci dal male si avvita invece su sé stesso in una storia estremamente traballante. Il film allora funziona quando accumula indizi e suggestioni, ma al momento di concretizzare il tutto i conti non tornano, il racconto si chiude sui personaggi e abdica ogni ambizione di completezza narrativa. E’ così che Liberarci dal male diventa quel tipo di film che nell’insieme vale meno delle sue parti, specie perché ad emergere con integrità è soltanto un percorso spirituale davvero troppo accomodante per colpire a fondo. Paradossalmente ma non troppo, questo è il cinema horror da cui lo spettatore esce più rinfrancato che destabilizzato, in cui i cui le forze in campo sono disegnate in modo manicheo, incapaci quindi di suscitare un timore che duri. Tuttavia, nell’atroce aridità creativa in cui versa il cinema horror americano di oggi, il risultato si distingue lo stesso. Basti pensare al potente finale del film, un lungo esorcismo in cui il rispetto del canone convive con una messa in scena capace e sempre personale.