Dossier Steven Spielberg / 22 - Munich
Storia di una vendetta senza gloria, attraverso la quale Spielberg riflette sull'impossibilità di mettere a fuoco il Reale. Amaro e pessimista, ma soprattutto stanco della violenza e del sangue.
Steven Spielberg ritorna ad affrontare i drammi della Storia, a sette anni di distanza da Salvate il soldato Ryan. Lo fa partendo da un libro inchiesta, Vengeance: The True Story of an Israeli Counter-Terrorist Team di George Jonas, basato sui tragici fatti delle olimpiadi di Monaco del 1972 e sulle conseguenze da essi innescate, e spostando il proprio sguardo non sulla cronaca fedele della tragedia, bensì sulla reazione israeliana del periodo successivo. Tre i punti fermi, insindacabili e slegati da qualsiasi interpretazione soggettiva: il massacro degli atleti (avvenuto il 5 e 6 settembre), la risposta del Mossad (voluta dal leader Golda Meir) e l’uccisione di molti dei vertici di Settembre Nero nel corso dei mesi seguenti. Partendo da questi elementi, Spielberg reinventa il lato oscuro della Storia attraverso il suo cinema, più che consapevole di prendersi molte libertà sul piano narrativo ma senza mai dimenticare una forte impronta etica di fondo. Si parla di ebrei, di Israele e di terrorismo, ma la specificità del contesto non mette mai in secondo piano l’universalità del pensiero del regista. Munich si rivela così la storia di una vendetta senza gloria, raccontata attraverso un linguaggio che richiama fortemente il cinema spionistico americano anni Settanta: di fatto, escludendo le sue pur numerose incursioni nel fantastico, è certamente il suo film dalla componente action più marcata, in cui il susseguirsi frenetico degli eventi (e delle location) attanaglia lo spettatore senza concedergli tregua. Ma questo non è l’unico primato della pellicola all’interno della filmografia spielberghiana, in continua evoluzione e rinnovamento dopo quello spartiacque identificabile con A.I. Intelligenza artificiale nel 2001: se in Prova a prendermi si poteva ancora riscontrare una forma di leggerezza, volta a nascondere i fallimenti e le sconfitte dietro la propria patina luccicante, ora tutto è esplicitamente virato in nero, senza filtri di sorta. Munich è il film più pessimista dell’autore americano, quello in cui si fa maggiormente fatica a scorgere un barlume di speranza nell’essere umano e nella sua Storia; o forse, più che di pessimismo, sarebbe il caso di parlare di stanchezza e di amarezza. E’ infatti l’opera di un artista (un uomo) stanco delle guerre – tutte le guerre – e della violenza, un uomo stanco dei ritorni a casa dentro una bara, un uomo stanco dei funerali. Spielberg aderisce alle regole del cinema di genere (appostamenti, sparatorie, esplosioni: nulla manca all’appello), ma in realtà le utilizza per mettere in scena un mondo sanguinolento e fratricida che ha già toccato il fondo, incapace di imparare dai propri errori e condannato a ripetersi all’infinito, senza sosta. Basterebbe la sola inquadratura finale, tra le più belle ed emozionanti di tutto il suo cinema, per comprendere quanto grande e potente sia questo desiderio di pace: un campo lungo sullo skyline di Manhattan degli anni Settanta, con le torri gemelle ben in vista sullo sfondo, mentre i due personaggi si allontanano rimarcando le dimensioni di una distanza incolmabile (per intenzioni, cultura, stile di vita). Tutto quel sangue e quella violenza non sono serviti a nulla, e la Storia tornerà a presentare il conto da pagare. Non è una questione circoscritta solamente alla questione israelo-palestinese: il contesto storico e culturale qui è pura sineddoche per un messaggio di portata universale, che travalica continenti e appartenenze. Mai come in questo momento il cinema di Spielberg si è trovato tanto in difficoltà nel mettere in scena gli elementi del reale per quello che sono, costantemente filtrati attraverso altre superfici come vetri, finestre, specchietti retrovisori, portiere delle auto; persino i personaggi stessi a volte sembrano perdersi e smarrirsi all’interno delle stanze, attraverso i corridoi, inseguiti dalla macchina da presa che prova in tutti i modi a definirli compiutamente all’interno dell’inquadratura, perché il Mondo è una realtà sempre più ardua da mettere a fuoco nella sua interezza. Ed è questa consapevolezza a rendere Munich (e il cinema tutto del suo autore), se possibile, ancora più grande e necessario. Forse solamente Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow, anni più tardi, avrebbe raccontato un’altra vendetta piena di ombre con la stessa intensità, seppure in quel caso fortemente radicalizzata nel contesto americano.