Life
Attraverso lo sguardo raddoppiato del fotografo e del regista, Anton Corbijn usa l'icona di James Dean per raccontare limiti e potenzialità dell'immagine
Life è un film anomalo. Dietro la maschera di biopic su una celebrità assoluta, l’icona transgenerazionale di James Dean, Anton Corbijn traccia un racconto di fallimenti, incontri mancati, brutte sbornie, inseguimenti mal conclusi. Nel 1955 il giovane fotografo Dennis Stock incontra la futura star del cinema, in procinto di entrare nel firmamento hollywoodiano con La valle dell’Eden di Elia Kazan. Istintivamente avverte una vibrazione particolare. Qualcosa gli dice che quel ragazzo bellissimo e scostante non è solo un attore talentuoso con una faccia da copertina, ma nasconde un’emozione, un tratto spirituale affine a un imminente cambiamento culturale che investe direttamente il valore che la giovinezza sta assumendo in quegli anni. Così inizia a seguirlo, per strappargli, malgrado la partecipazione restia di Dean, le immagini che possano confermare la sua visione. Lungi dall’offrirgli un ritratto divistico di sé, l’attore lo trascinerà in Indiana, nella sua fattoria di famiglia, per godere per l’ultima volta della gioia e del dolore di tornare a casa.
Personaggi che si lasciano, che se ne vanno in deludenti uscite di scene, individui che abitano lo spazio in una sorta di disagio interiore. Life racconta la medesima incapacità di stare in mezzo agli altri, sublimata da Dean nella recitazione e da Stock nel rifugio dell’obiettivo fotografico. Non è un caso allora che Corbijn delinei parallelamente i loro due rapporti fallimentari con l’amore: quello dell’attore con Anna Maria Pierangeli, che dopo un’appassionata relazione lo lascerà per sposare Vic Damone, e quello imbarazzato, colmo di silenzi del fotografo con un figlio che non vede mai. Soprattutto non stupisce che il regista, che è anche un celebre fotografo di musica, affronti platealmente la natura iconica di James Dean lanciando al suo inseguimento per tutto il film un occhio fotografico che lo incalza feroce. Dennis Stock si affeziona a Dean, lo trova intelligente, sensibile e molto capace, si rifiuta di banalizzarlo nelle classiche foto patinate, ma questo non toglie che il suo obiettivo primario sia trarne innanzitutto l’immagine iconica del nuovo che avanza e di una gioventù fresca e anticonformista che l’attore, più che interpretare, deve riassumere di fronte alla macchina fotografica. Ciò che però rivela questo mito incarnato dell’eterno presente – sempre bello, giovane, e immortale nella mente del pubblico - è un’inestinguibile nostalgia per il suo passato, simboleggiato dal ricordo straziante della madre perduta da bambino.
Nonostante questo il James Dean catturato da Dennis Stock è, attraverso il parallelo obiettivo di Anton Corbijn, ancora l’icona di cui il pubblico stesso, passato e odierno, continua ad avere fame. Non conta che l’attore si irrigidisca, e ascolti con disappunto il clic che gli nega la comprensione desiderata, rendendolo puro oggetto del desiderio visivo; gli spettatori di Life continuano a guardare sul grande schermo, un individuo che chiede empatia e non semplice visibilità. La recitazione, mai mostrata nel film, giacché Dean è colto nell’intervallo fra La valle dell’Eden e l’inizio della lavorazione di Gioventù Bruciata, è infatti periodicamente rievocata come l’unico modo per animare un’immagine altrimenti solo consumata dalle grandi platee, ed è in quest’ottica che il film di Anton Corbijn assume, aldilà dello sfondo biografico, il valore di metafora sul senso dell’inquadratura foto-cinematografica, talvolta rapidamente divorata, talvolta invece ribelle, pronta a far uscire dai suoi interstizi qualcosa che va oltre il banalmente visivo, per allungarsi a toccare lo spirito.