L'infinita fabbrica del Duomo
Capitolo a se stante della tetralogia Spira Mirabilis, ovvero dell'Illusione d'immortalità attraverso la terra, materia plasmata dallo sguardo magnificente del Potere
Presentato al 68° Festival del Film di Locarno, L’infinita fabbrica del Duomo è nell’ordine il quinto film dei registi (coppia anche nella vita) Massimo D’Anolfi e Martina Parenti; nonché capitolo della tetralogia Spira Mirabilis che, in concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, ha riacceso l’atavico dibattito sulla presunta inconciliabilità tra il cinema indipendente e le esigenze del settore distributivo, filtro commerciale del visibile. Eppure, nei fiumi di inchiostro versati sulla polemica viziosa, si ravvisa, proprio nella radicalità dell’autonomia creativa dei due registi, il più audace principio di coniugazione. Nelle dichiarazioni veneziane, infatti, i due autori hanno confidano di muovere verso una rivendicazione del “diritto ad una personale misura dello sguardo”, che attragga nel medesimo slancio di libertà “le persone”, svestite dei panni anonimi dell’“ente spettatore”, qualità generica di ruolo e convenzione, cui la personalità si piega. Ed ecco, pertanto, l’impegno e il piacere, tanto di metodo e talento di meta-osservazione sul campo, quanto della disposizione alla fruizione filmica mutevole ed emancipata da schemi a soggetto. L’arte che scomoda l’automatismo gerarchico dei sensi, smarrisce e sprona nella vertigine di prospettive inesplorate. Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, ci restituiscono in questo senso la possibilità d’esperire l’esistenza attraverso l’arte ieratica del linguaggio cinematografico, di riattualizzarne lo statuto nel vissuto della visione, datasi come esperienza individualizzata di rinnovamento estetico. Tale è l’incipit de L’infinita fabbrica del Duomo, apoteosi di un animismo del creato e dell’operosità umana, che ha nel marmo, estratto dalla terra e investito d’immaginario collettivo, la costituzione materica dell’illusione d’immortalità; la stessa declinata anche attraverso, l’aria, l’acqua, il fuoco e l’etere in Spira Mirabilis.
Per abbracciare l’impresa secolare di edificazione del monumento simbolo di Milano, i registi collocano la primissima inquadratura nel cuore del tronco dell’olmo di Mengozzo, il più antico d’Italia, piantato nel 1386, stesso anno dell’estrazione dalla montagna, ivi sovrastante, del primo blocco di marmo destinato al Duomo. L’olmo è il patto di eternità, alter ego primordiale, il doppio speculare, sorta di ritratto di Dorian Gray del Duomo medesimo. L’olmo è l’antefatto e l’avvenire perpetuo, è esso stesso configurazione della cattedrale con i suoi rami slanciati, spigolosi e divergenti, ordinati a formare una corona di guglie filiformi e fragili, sul tronco antico sostenuto da staffe, prodromi di impalcatura. Finché resterà in piedi l’olmo, reggerà la cattedrale, così sentenzia la leggenda popolare, irrefutabile. Così, esordio ed epilogo del film non possono che essere simmetrici, perché l’olmo apre alle sequenze dei lavori nella cava e nei cantieri di ripristino e dopo la ricollocazione delle statue decorative, torna a presiedere, spirito tutelare, alla ripresa di un nuovo trasferimento. Nell’intervallo, l’apparizione dell’effigie, l’avanzare a mezz’aria della statua sospesa, stretta in soggettiva. Le imbracature tradiscono il binario della carrucola, ma il contro luce radioso l’ammanta di un’aura celestiale, tra gli esili, aguzzi rami secchi, protési al cielo. Il cigolio della tensione dei nastri di scorrimento lamenta il peso dei secoli barbicati alla materia, la sua insostenibile grazia esposta all’usura del tempo, pronta ad essere risanata. Prima del laboratorio di restauro (l’intervento chirurgico sulla pietra, ridisegnata, levigata e sbiancata) vi è il deposito, uno stato di limbo cimiteriale a cielo aperto, ma anche sotterraneo. In antri oscuri numerose sculture rivelano al filtrare di un fascio di luce, l’aspetto estremamente deteriorato e annerito. È il girone della dimenticanza. Tutte sono figure, solo una è presenza solenne, fulgida nella portata di valore inestimabile, vertice di Storia per se stessa. Reportage fotografici, come reliquie delle fasi di restauro della Madonnina, mentre i gesti precisi e delicati delle mani, sono quasi un dogma di fede per l’osservatore incompetente, tale è la cura artigianale, una sacralità che l’uomo non riserva neppure al con-tatto dei suoi simili in carne ed ossa. E pare davvero farsi carne la coesione di composto plastico e sostanza rossastra, trasfusione rivitalizzante di nuova linfa. La Madonna dalla veste drappeggiata, smossa nella posa chiasmica, braccia tese, volto inclinato, torna sempre a splendere, di contro a quella folla di statue, busti, colonne, corrose, mozzate, irretite da ragnatele ed erbacce, ammassate le une alle altre, come in fuga da Pompei.
Stacco netto e contrasto nel passaggio dal bianco, o bianco nero fotografico, al calore delle luci e colori caldi degli arredi in legno massiccio e dei candelabri delle sale museali della Veneranda Fabbrica del Duomo. Nel tempio della storiografia e della letteratura d’archivio è custodita la giurisdizione temporale, anch’essa però d’ascendenza oltremondana, a partire da Giangaleazzo Visconti, Signore di Milano, cui in sogno il maligno intimò la costruzione di un monumento dall’aspetto demoniaco; più che monito, l’avvio di una fabbrica perpetua di soggezione sulle anime da dannare. S’apprende che Papa Bonifacio IX emanò un giubileo straordinario per sovvenzionare l’opera con una capillare raccolta fondi ad ogni angolo di strada: indulgenza plenaria per i contributi alla causa della costruzione, appello cui il popolo rispose prontamente. Che il Duomo appaia immortale sulla mortalità delle generazioni di donatori e mano d’opera, lo si deve, dunque, all’immortalità dell’investimento politico sul monumento esemplare, che inchioda i peccatori. Costanti e maggiori furono, infatti, le offerte delle fasce povere della popolazione nel corso dei secoli, nel corso del perpetuarsi della superstizione e del giganteggiare delle raffigurazioni dei padri della chiesa, che presiedono la cima del Duomo, ad un passo dal flagello di nubi tempestose, a piombo sul passeggio dei turisti sulla terrazza e ancor più nella piazza sottostante, schiacciata dalla ripresa, come il brulicare d’un formicaio. Le statue, le vetrate, le guglie restano immuni al ripetersi delle azioni quotidiane. Per quanto imperturbabili, restano sempre assoggettate alle connotazioni dello sguardo ( in primis ora, quello dei documentaristi) e al contempo strumento di dominio attraverso lo sguardo stesso (cosa ne fece la Controriforma!) . La decantata immortalità della materia è l’illusione in cui si incarna l’epifania dell’immagine artistica, la sua indefinibile dilatazione di resistenza agli agenti del tempo (infinita quando preservata, certo; diversamente quando abbandonata al degrado e alla speculazione edilizia).
Resistenza scambiata per imperturbabilità. Contingenza del potere per identità e memoria.