Spira Mirabilis
Sinfonia visiva di D’Anolfi e Parenti, odissea panteista che intercetta la sua essenza nella continua rigenerazione di tutte le cose che sono.
Alzando lo sguardo verso il cielo stellato, sprofondandolo verso gli abissi marini, tra fughe laviche e antichi desideri di cattura dell’aria, Spira Mirabilis è un mistero insondabile. Ciò che indaga, prima di tutto, è il segreto stesso delle immagini, la loro capacità mimetica, il loro essere intrinsecamente mutanti. Il grande merito di D’Anolfi e Parenti è quello di lasciare intatto l’arcano, di fare del cinema un flusso ipnagogico di immagini pensanti. Perché le immagini pensano, attraverso la loro durata, attraverso il loro continuo divenire e farsi altro da sé. Filmare significa filmarsi, scoprirsi, infine riconoscersi in un’odissea panteista e mai definitiva. Il senso è l’eccedenza, un residuo, una traccia ricercata nell’immagine seguente e in quella passata. Quella presente, del resto, non esiste già più.
Il film di D’Anolfi e Parenti si costruisce nella mente dello spettatore che è subito chiamato a farlo suo, a modellarlo, a distrarsi per lasciar essere che tutto sia. La sovrimpressione, una delle cifre stilistiche più ricorrenti nel film, fa dell’immagine una scatola cinese, svelandone la sua profondità impossibile. Ogni immagine è anche un’altra immagine: è la custode del tesoro e, allo stesso tempo, il cimelio tanto agognato. E’ se stessa ma è già altro da sé. Nel magma incandescente di Spira Mirabilis si capisce allora come sia la trasformazione l’essenza stessa del mondo: alla ricerca di una connessione tra tutte le cose che sono, una visione d’insieme è impossibile, eppure c’è il sogno magico del frammento, il suo essere filamento di qualcosa che è sempre a-venire. Non c’è nulla di inutile, non c’è nulla di solo: ogni elemento ne assorbe un altro ed è sempre in attesa di una possibile, necessaria mutazione.
Tamburi metallici, indiani e versi di Borges, alberi che cadono, bambini e oche: in questo sciamanico dedalo di immagini, sussiste solo un continuo ripensarsi, un ritrattarsi di tutti gli elementi naturali. Spira Mirabilis, per l’appunto, medusa capace ininterrottamente di rigenerarsi in forme diverse. Che sia questa trasformazione il segreto dell’immortalità? Un’immortalità a portata di tutti quelli che non conoscono cosa significhi morire: solo gli uomini sono mortali perché sanno il significato della morte. Eppure fabbricano, costruiscono, resistono, lasciano tracce di sé nell’uomo seguente e in quello dopo ancora (ogni uomo è già ieri, oggi e per sempre, l’altro uomo).
Così Spira Mirabilis si fa ipnofilm sul linguaggio, non un addio godardiano, non un film sul verbo, ma una cosmogonia dove il motore del mondo pare il suono. Ogni suono è colto nel suo farsi, il naturale si fa artificiale per ritornare di nuovo nel grembo della madre terra. E così il linguaggio del film non può fissarsi, non può definirsi, non può essere uno perché soggetto al tempo e alla mutazione. Cambiano i formati, cambiano le lenti, cambiano i sintagmi.
Spira Mirabilis interroga se stesso senza porsi chissà quale domanda, ma lasciando che tutto sia plasmato, tutto scorra come le stagioni o come gli elementi primordiali. Una sorta di danza cosmica, un voyage of time capace di sognare a occhi aperti una palingenesi del mondo. La visione può essere lenticolare o grandangolare, cosmica o terrena, animale o vegetale. In divenire: non più le quattro volte, ma una serie infinita di sogni nei sogni, come le immagini da un treno che ci porterà di nuovo, chissà, alla stazione della Ciotat. Rigenerazione e poi ancora rigenerazione: eccola lì la spirale meravigliosa. L’importante, in fondo, è lasciare qualcosa di sé. Una traccia, un ricordo, uno strumento…un’immagine.