Come il precedente film di Lisandro Alonso, Los muertos, anche Liverpool è caratterizzato da uno stile minimalista e da tempi dilatati, e racconta la storia di un uomo solitario che si muove attraverso una natura desolata e indifferente, ma non priva di fascino. Non ci sono più le immense foreste fitte e ombrose, paesaggio che inghiottiva il personaggio di Vargas in Los muertos nella sua pur rigogliosa monotonia, ma il mare freddo e i ghiacci eterni della Terra del Fuoco; qui il protagonista Farrell attraversa ampie distese innevate dove già si respira la gelida immobilità dell’Antartide, per ritrovare la sua famiglia e scoprire se l’anziana madre è ancora viva. Ha chiesto al capitano della nave cargo su cui lavorava il permesso di scendere a terra, iniziando così un viaggio a ritroso verso le proprie radici e il luogo remoto da cui è fuggito. Il mondo che lo accoglie è come pietrificato, in letargo, popolato da persone chiuse e silenziose, indurite dalle condizioni estreme di vita, che affrontano tuttavia dignitosamente la loro povertà. L’incontro con la famiglia, non privo di importanti novità, non sembra però cambiare il senso del viaggiare (o meglio, del vagare) di Farrell, e il suo modo di guardare il mondo.
I film di Alonso somigliano a volte a parabole stranianti sullo scarto tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda, inteso come realtà spaziale e sociale ma anche come natura. L’isolamento di certi luoghi coincide con l’isolamento interiore dei personaggi, che è sordo e doloroso, impossibile da scalfire. Se da una parte uomo e “mondo” trovano quindi una coerenza speculare, dall’altra notiamo come la natura stessa – con la sua muta imperscrutabilità – resti sempre indifferente rispetto al sentire umano; i personaggi di Alonso non trovano infatti mai neppure un’eco in risposta ai loro disagi interiori, e finiscono per affondare in una inevitabile solitudine in cui non esistono termini di confronto. Quella descritta dal regista argentino è una dimensione dove non c’è empatia, né reciprocamente tra gli uomini, né tra l’uomo e lo spazio.
La predilezione per le atmosfere rarefatte e sospese si associa a quella per gli universi più poveri e marginali, e il minimalismo dello stile si fa tutt’uno con quello connaturato alla quotidianità delle situazioni rappresentate. L’occhio della macchina da presa è ancora una volta discreto e riservato, pronto a indugiare su ogni piccolo gesto dei personaggi e a sostare sul vuoto dei paesaggi e delle stanze senza però essere mai invasivo.
Alonso conferma con quest’opera i suoi marchi autoriali e la radicalità del suo cinema dal sapore documentaristico, intimo e in un certo modo lirico ma al contempo estremamente asciutto, ruvido, essenziale. L’antinarratività sembra essere una componente irrinunciabile della sua poetica, così come il senso estremo di realismo e naturalezza, la volontà di restituire immagini autentiche e non manipolate, l’attenzione millimetrica alla descrizione di un vissuto fatto di piccole cose: quello che ne viene fuori, con Liverpool, è una film toccato da una scabra, austera bellezza.