Locke
Il secondo film da regista di Steven Knight è cinema allo stato puro, scarnificato, materia narrativa allo stato primordiale incarnata da un grande Tom Hardy.
L’evanescenza dell’immagine in movimento fa spesso dimenticare che il cinema è anche qualcosa che rimane, in forma di un’essenza concreta che si riverbera sulle nostre vite come gli effetti di mille altri artifici. Vedere un buon numero di film l’anno può diluire questa consapevolezza, piuttosto che rafforzarla, e allora può servire imbattersi in un prodotto limato da ogni orpello che ci ricordi cosa significhi quest’arte. Locke è cinema allo stato puro, scarnificato, materia narrativa allo stato primordiale: un uomo che cerca di andare in una direzione, scontrandosi con tutti gli ostacoli che trova sulla strada. Ivan Locke è una persona perbene, un padre di famiglia responsabile e un lavoratore diligente. Il suo carattere è reso dal mestiere che ha intrapreso, il costruttore di palazzi; Ivan vuole migliorare il mondo con il calcolo e la misura, innalzare edifici sempre più belli e alti adoperando le capacità umane più elevate, la razionalità, la pazienza, la facoltà di riflettere e poter discriminare di volta in volta ciò che è giusto e sbagliato. Ma ha commesso un unico errore, e una sera, alla vigilia del più importante progetto della sua vita, il presidio di una gigantesca colata di cemento da cui nascerà un palazzo altissimo, deve fare una scelta, cambiare – letteralmente – percorso e mentre guida verso la sua nuova destinazione, telefonare per avvertire tutti, la moglie a casa coi figli che lo aspettano, i datori di lavori e i colleghi, che niente è più come prima.
Un film in tempo reale con un solo attore alla guida di una macchina, il suo volto attraversato dalle luci notturne e le voci con cui parla al telefono, oltre allo scomodo fantasma mentale di un padre assente cui il protagonista si rivolge tra una chiamata e l’altra: Locke è tutto qui, ma non è poco, perché in realtà ogni storia umana è fatta di questo, un individuo e le sue scelte, la propria voce interiore e quella del mondo esterno. La potenza del secondo lungometraggio di Steven Knight, già ottimo sceneggiatore – si veda La promessa dell’assassino di David Cronenberg – sta nel ridurre al minimo gli elementi cinematografici per rivelare che questa sottrazione non produce affatto una conseguente povertà del materiale filmico, oltremodo ricchissimo di contenuto umano. Altresì nel relazionarsi con un solo personaggio, il volto di un Tom Hardy mai così ben sfruttato, si riscopre il senso dell’essere spettatore cinematografico, relazione con lo schermo basata sull’empatia che solo noi che lo vediamo nell’interezza delle sue espressioni possiamo concedere a Ivan Locke, a differenza delle voci che di volta in volta lo aggrediscono per rimproverarlo o chiedergli schiettamente se si sia bevuto il cervello. La concessione di un volto solo alla cinepresa, nella sua completa vulnerabilità, costringe chi guarda a concentrarsi unicamente sulla sua voce e i suoi occhi, rivelando l’istintiva inclinazione ad affezionarsi, appropriarsi delle storie create dal cinema per cercare specchi della propria esistenza e sapere di non essere gli unici disgraziati che non sanno che scelte fare. Ivan ha degli ideali, ma le convinzioni sono facili da seguire quando tutto va bene, mentre mantenersi fedeli a se stessi e a ciò che malgrado tutto si crede giusto quando la tempesta incombe è la lotta finale di ogni individuo per conservare un residuo di dignità e stima anche nel baratro. C’è nondimeno un effetto collaterale che lo stesso Locke non aveva previsto all’inizio del suo viaggio in autostrada: scontrarsi con se stessi non per forza è solo distruzione, cioè la cosa peggiore che potesse capitare a un uomo che ha passato tutta la vita a cercare di dare vita alla materia informe, ma è anche la scoperta di come da un viaggio interiore nelle proprie contraddizioni possa emergere una nuova compassione per la fragilità umana circostante che rende possibile comprendere un poco di più gli altri, un antico sentimento grazie al quale chi osserva la sua vicenda può donare la propria partecipazione emotiva. Poter ricordare che il dolore, inutile di per sé, può anche essere usato per diventare persone migliori, questo è Locke, e questo è il cinema di cui abbiamo bisogno.