The Look of Silence
Joshua Oppenheimer completa il discorso iniziato con il monumentale "The Act Of Killing". Ma il suo nuovo film in parte ne dissinesca il potenza, nonostante non esiti nel fissare la mostruosità
A volte l’ostinazione è una delle qualità più imprescindibili per un cineasta. Non c’è sguardo radicale, dopotutto, senza la persistenza di un’ossessione. Joshua Oppenheimer, in tal senso, è un regista che dal suo assillo sembra trarre addirittura la sua ragione di vita. Filma per fare i conti col passato, Oppenheimer, consapevole di un’urgenza politica nell’uso della macchina da presa che non può arretrare di fronte alla denuncia dell’orrore, della sospensione dell’umanità che abdica e lascia il posto alla sua nemesi. The Act of Killing raccontava proprio questo: l’abisso di una mostruosità così delirante da sconfinare nella demenza, nel patetismo miserabile, nella serenità priva di coscienza di chi ha fatto del proprio passato un buco nero di violenza cieca perpetrata ai danni dell’essere umano. L’eccidio anticomunista che ebbe luogo in Indonesia tra il 1965 e il 1966 diventava, in quel caso, materia di contemplazione da parte del regista, oltre che caso clinico per provare a fissare a occhi spalancati la voragine delle bassezze verso cui l’istinto omicida più animalesco e irrazionale può spingersi. Oppenheimer filmava i massacratori con una neutralità altrettanto spaventosa, dando voce ai loro ricordi, diari privati, sorrisi e compiacimenti. Un tour de force orrido e necessario, un pugno nello stomaco avvilente come pochi altri nel cinema contemporaneo.
Il regista aveva però la sensazione che quel film non fosse finito là. Che occorreva andare oltre, insistere, ritornarci. L’ossessione, si diceva, linfa vitale di chi fa della macchina da presa un prolungamento naturale delle proprie cornee ma anche dei propri stessi arti. Di chi la usa per capire, afferrare, vivere le cose. E allora eccolo fare tappa un’altra volta in Indonesia, a scrutare nuovamente il ghigno sfacciato della bestialità. Lui, texano trasferitosi in Danimarca, in quel paese ostile e macchiato di sangue a ribaltare il punto di vista del suo film precedente: non più i carnefici, stavolta, ma le vittime. In questo suo nuovo sconvolgente film Oppenheimer non scava a mani nude nel letame ma resta più defilato, non riflette sul sottotesto alienante e manipolatorio che implica qualsiasi messa in scena l’uomo realizzi, a qualsivoglia livello. Se infatti i fautori del genocidio in The Act of Killing inscenavano i propri stessi crimini in modo posticcio e con dei trucchi artigianali guardando beffardamente alle loro passioni hollywoodiane, qui la crudeltà sembra insita nei silenzi del paesaggio, nell’omertà della natura, nella rarefazione ipnotica delle immagini, nelle speranze vane di chi vive ancora in un paese in cui dei criminali che hanno perpetrato misfatti ingloriosi contro l’umanità possono continuare a vivere accanto a loro, a pochi metri di distanza, nelle stesse case. Stavolta il regista pone però anche un ulteriore filtro, in sua vece: un uomo gli fa da vicario, un ragazzo cui quegli uomini uccisero il fratello e che adesso li osserva in tv, li intervista, siede al loro fianco per tentare di comprendere come tutto ciò sia stato possibile.
E’ una scelta espressiva molto potente, perché il risultato è praticamente un controcampo emotivo e intimista, oltre che familiare, del film precedente di Oppenheimer. Alla pubblica rappresentazione si sostituisce il racconto privato. Alla spavalderia del compiacimento la narrazione sommessa ma non meno orgogliosa. Questo passaggio formale però, nonostante la specchiata moralità di cui il film si fa portavoce, toglie qualcosa in termini di resa cinematografica: la forza ancestrale del documentarista in qualche modo va incontro a una paralisi, a una lieve fossilizzazione che non rende The Look of Silence importante quanto il film precedente, anche se da svariati punti di vista non meno ragguardevole. Anche gli slanci visionari sono messi da parte: nessun carosello allegorico, solo un ruvido realismo applicato all’essenza ferina di esseri immondi. Di sicuro potente, ma anche giocoforza un po’ più sterile, meno incendiario sotto il profilo sia cinematografico che antropologico ed analitico. Va in questa direzione anche la presenza troppo massiccia del mezzo televisivo, piazzato in scena fisicamente, non tanto come elettrodomestico quanto proprio come portale privilegiato per osservare la realtà. Una notazione teorica di sicuro interesse, ma che un po’ annacqua l’approccio a una materia così cruda. Oppenheimer non manca tuttava di riflettere sull’atto stesso del filmare, anche se il discorso in questo caso resta più appeso a un filo, più interdetto: il suo “vicario”, intervistando uno degli assassini, incontra le sue ire perché gli rivolge domande troppo politiche. Il colpevole, invece, vorrebbe domande meno profonde: “Joshua rimane in superficie con le domande, tu no”. Cosa vuole dire, dunque, filmare in modo politico? Estrapolare la profondità dalla superficie, o altro ancora? Interrogativi molto interessanti, che il film apre ma non sviluppa del tutto, preferendo altre strade più centrifughe rispetto all’importanza di questo dilemma.
Il finale, in compenso, è un crescendo assoluto, e duole ammettere che solo allora il film riesce ad assestarsi su delle corde davvero elevate: la meccanicità della testimonianza lascia infatti il posto a intere famiglie che vedono sventrato e cavato davanti ai propri stessi occhi il cuore nerissimo dei propri peccati taciuti, sepolti sotto la sabbia della falsità più vergognosa. E’ in quel momento che The Look of Silence, prodotto ancora dagli illuminati Werner Herzog ed Errol Morris, va a “riempiere un vuoto”, come ha ribadito lo stesso Oppenheimer oggi in conferenza stampa nel presentare il suo film a Venezia. A colmare la mancanza di responsabilità di chi rinuncia a stare dalla parte corretta e non ha dubbi su cosa scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è facile.