We Are Who We Are
Attraverso la miniserie SKY-HBO Guadagnino ripensa alla dimensione critica della sua immagine e cerca un punto di inizio per raccontare l'identità oltre le definizioni dell'inquadratura.
A Luca Guadagnino interessa sciogliere l’inquadratura per assolvere quest’ultima dalla ricaduta definitoria che può contraddistinguerla. Gli interessa cioè scrivere un dire per immagini, non un discorso, che rompa con le definizioni, un dire e non un detto che lasci libera, appunto sciolta, assolta, l’interpretazione, cioè la posizione rispetto all’oggetto interpretato – il mondo, il corpo, il segno in questione - assunta dalla camera da presa, dal suo occhio, dalla sua mano. Questa inquadratura sciolta, che è anche il farsi materia della scrittura in punta di piedi, sospesa, sempre allusiva, degli sceneggiatori Paolo Giordano e Francesca Manieri, è il punto di arrivo del linguaggio di una carriera, l’incrocio tra il presupposto ermeneutico del progetto estetico del regista - la dimensione critica dell’immagine, o, come ha scritto Roberto Silvestri, la sua natura «critofilmica»- e il tentativo fenomenologico di avvicinamento alla cosa stessa che Guadagnino insegue a ogni progetto da zero – frutto di una ricerca originale, di un modo proprio di misurarsi nello spazio delle cose, uno stare-tra-le-cose, infra, sempre in progressione oltre i discorsi definitori. È un risultato che, come conviene ai punti di rottura, ai punti in cui l’immaginario, il finzionale, si piega e si squaderna per dire del reale, è paradossale: grammaticale, perché pensato a fondo in termini di messa in scena, ma pregrammaticale perché appartenente a una naturalezza che sta all’opposto dell’artificio – il che potrebbe fare pensare a un altro paradosso, quello della diatriba Bazin-Godard sulla grammatica e il senso (siccome il cinema è cattura del tempo, l’espressione cinematografica fondamentale è il montaggio o il piano sequenza?).
Un risultato che comunque proprio in virtù di questa pregrammaticalità apre l’immagine, la libera, e la unisce al mondo indefinito e indefinibile, al naturale che sta al di fuori, cioè la apre al negativo del fuori campo, ribaltando quest’ultimo, prima limite definitorio (positivo), nello spazio negativo verso cui l’immaginazione suggerita dall’immagine si protende. A che pro però, e pensando alla critica di che cosa? Come arriva Guadagnino a scegliere - perché alla fine è una faccenda di scelta - una posizione che annulla le definizioni dell’inquadratura e del suo limite, del suo contorno, come arriva, in fondo, ad annullare l’inquadratura? Il regista parte dal presupposto già citato, quello di una tensione ermeneutico-critica in atto diretta verso un oggetto: nel caso di We Are Who We Are l’oggetto sembra essere un’interpretazione cinematografica della ricerca identitaria, in particolare l’interpretazione che Maurice Pialat propone dell’identità ne Ai nostri amori, come si evince dal rebus dislocato tra le immagini (su tutti il nome della base americana dove la narrazione si svolge, M. Pialati). Guadagnino non pensa a Pialat come oggetto critico per attualizzarlo, per spiegarlo o tantomeno per scopiazzarlo, ma per confessare un legame genetico con la sua misura, cioè con la scelta della distanza da cui osservare l’evento identità, la decisione su come realizzare la finzione della messa in scena, e per trovarsi nella misura di un altro.
Pialat in quel film raccontava gli squilibri identitari di una ragazza, la scoperta dell’eccedenza del suo desiderio rispetto alle definizioni del linguaggio della propria famiglia, attraverso una sensibilità in grado di «limitarsi a constatare», «tra partecipazione e distanza», «nell’intensità esistenziale delle scene, così naturali e così rigorose (il disordine vitale dentro strutture di fondo) e unite da sottili, veri legami» (Gianni Volpi). Guadagnino fa sua questa misura, fa suo questo discorso, soprattutto per quanto riguarda l’ordine naturalizzato, ma non lo copia, piuttosto si pone in continuità con esso e lo interpreta, lo legge e lo riaggiusta, lo modifica un poco, crea un disallineamento, un leggero strabismo. Procede in interventi con cui piano piano esce dalla misura di Pialat, cioè dal discorso che quest’ultimo fa sull’identità, attraverso la misura stessa, come prevede il modello interpretativo, che genera un nuovo corpo dal corpo interpretato: lo si vede nell’uso del fermo immagine inceppato, che ne Ai nostri amori era la soluzione grammaticale conclusiva, e invece in We Are Who We Are è un elemento minimo ricorrente, un importante indicatore di reale («la realtà è dove si inceppa» per Lacan); lo si vede nel rapporto capovolto tra momenti vuoti di quiete delle nature morte e momenti pieni di azione e corpi, dove i primi raccontano il senso dei secondi; lo si vede nella comparsa dei primissimi piani che sfondano il controllo della distanza in momenti anticlimatici. Lo sforzo ermeneutico sulla misura di un’altra immagine produce così una nuova immagine, un nuovo ragionamento sull’identità, e questa è la controparte fenomenologica dell’inquadratura sciolta. Uscito dal discorso concettuale (grammaticale) su Pialat attraverso Pialat, Guadagnino è libero e incontra ora la “cosa stessa” avvicinandosi a essa: forte di una misura acquisita geneticamente e incarnata criticamente avvicina il mistero dell’identità.
Come si posiziona il suo dire però? Come supera e concreta in una posizione il discorso sull’eccedenza del desiderio de Ai nostri amori? Proprio perché si avvicina alla “cosa stessa”, proprio in quanto libera, l’immagine di Guadagnino non pensa che al fondamentale, all’originario, alla libertà: cerca cioè senza sosta il cominciamento del proprio discorso, il punto di inizio, la prima parola, la prima immagine per cominciare, e per questo è un dire continuo e mai un già detto. In nome di questa ricerca dell’originario, la riflessione sul mistero del corpo e dell’identità si materializza in una messa in discussione del segno “soggetto” a favore dell’originaria coppia Io e Tu (Fraser e Caitlin, i ragazzi protagonisti): il primo è una costruzione arbitraria, mentre i secondi sono contestuali all’origine del mondo umano. La delegittimazione del primato del segno “soggetto” (che, almeno in sede di scrittura, rimanda alle teorie di Judith Butler) è un primo movimento negativo di avvicinamento al mistero dell’identità che consiste nel continuo sfumare di prospettiva tra i personaggi, nello scarto del punto di vista egologico sul mondo. È messo in gioco un diorama di attrazioni e tensioni gravitazionali che si rigira in un ballo di corpi desideranti, corpi sempre al limite tra il riconoscimento e la negazione, corpi che si strattonano per avere più potere, più dominio. L’incrocio tra le prospettive e l’assenza di un lato dominante scalza l’asse delle direzioni narrative obbligate e decide per la messa in opera di un’ambiente, di un contesto, nel senso di un luogo in cui si è, in cui i personaggi sono e vivono. Se si vuole si può leggere in questo indefinito intelletto agente distaccato dai corpi, etereo, una lettura dell’identità americana, idea disincarnata dal proprio territorio natio, software applicabile.
Questo momento negativo si ribalta in positivo quando si conferma un passaggio che i due protagonisti attraversano, quel passaggio che è l’Altro da sé. Fraser e Caitlin, che vivono gli stessi eventi da due punti diversi (i primi due episodi sono un grassetto di questo concetto), attraversano il mondo - Fraser nella propria epilessia vitalistica, Caitlin nel proprio dubbio iperbolico -, frantumano la loro soggettività abbandonandosi al contesto, trascinati dal desiderio di scoprirsi nel mondo (con un passaggio fondamentale nel quarto episodio), e poi ritornano a un sé. Un sé che però è aperto e pieno del mondo attraversato e si dispiega in un Io e in un Tu. Il sé non è il sé, io non sono io, noi non siamo noi, perché l’identità non è un palindromo perfetto: nel finale fuori dalla base-inquadratura, fuori dalla definizione, Guadagnino spezza i discorsi palindromici, monologici, di un soggetto che vede solo se stesso; il regista riconosce nella frattura di un sé che trova se stesso solo fuori di sé la prima parola, la prima immagine, che poi è idealmente anche l’ultima, per un discorso sull’identità. L’immagine di un sé che è nell’altro, e che acquisita questa consapevolezza anche gridando, oltre le affermazioni egocentriche, ad alta voce “io non esisto”, “noi non esistiamo”. È lì che sporge il corpo, l’identità, in un non-detto che è un ancora-da-dire, in un fuori campo che è una possibilità: di fronte al nulla del non esserci, è lì nella sporgenza eccedente che l’identità mostra una risorgenza.
Così Guadagnino ha il coraggio di mettere in scena un esserci che ha conosciuto la contrazione del non-esserci, come si vede nelle ultime scene in cui si sofferma sugli spazi vuoti lasciati dai corpi che cambiano posizione. È così commovente la corsa di Fraser e Caitlin per Bologna, scandita dal John Adams di Two Fanfares for Orchestra: Short Ride in a Fast Machine, il loro capirsi finalmente, responsabili ognuno del segreto dell’altro, fuori tempo, in inquadrature che ormai non tengono più il peso del reale e si sciolgono in un sentimento, in una lenta gravitazione. È così commovente sentire, nel semplice vuoto delle colonne tra cui i due stanno sospesi, nella Storia, il suono del mondo che si schiude, la terra che si apre, la possibilità di un esistere plurale che si afferma senza negare niente. Nell’inquadratura sciolta in cui l’ermeneutica e la fenomenologia si guardano negli occhi la messa in forma scoppia di reale e il reale è reincarnato dalla messa in forma: l’estetico respira il fisico, il fisico l’estetico.