Il nostro tempo, come tutti i tempi, è frutto di un pensiero e di traiettorie in divenire. Fra le molteplici da elencare ve ne sono alcune che rappresentano delle vere ossessioni per molti di noi. Si può fare il caso della virtualità del nostro essere. Sono passati lustri oramai da quando Slavoj Žižek osservava come la virtualità è oggigiorno parte integrante e irriducibile della nostra realtà. Al contempo sono segni totalmente assorbiti quelli per cui la rivoluzione tecnologica – che, per sua stessa definizione, si strutturava su stravolgimenti che andavano a rimpiazzare un ordine precedente – si sia acquietata in un’era tecnologica, dove i dispositivi interagiscono con la nostra persona senza più rimarcare uno strappo con una società e un modus vivendi da tempo sorpassati. Non ultimo l’ipertrofia dell’io, tanto anelata e temuta dall’uomo di tutte le epoche, vive oggi in delle forme se non impareggiabili quantomeno mai viste (dai social media in giù) che ne stanno per determinare la sua celebrazione o la sua definitiva futilità. Ma, come si diceva in apertura, questo è e rimane un percorso antropologico e culturale in fieri, dove la stabilità è ospite non gradito.
Dei tanti percorsi che la nostra cultura sta attraversando – o dai quali è attraversata – se ne sono menzionati tre non casualmente, poiché specialmente questo trittico è alla base delle ossessioni di Cosimo Terlizzi, da poco passato al Torino Film Festival con questo suo L’uomo doppio, ennesima ricognizione in forma diaristica sul reale ai tempi dell’ipertrofia dell’io, della realtà aumentata e della miscela sempre nuova che il virtuale interlaccia con il reale, per una fusione che sta polverizzando le differenze fra i due termini.
Cosimo Terlizzi da anni compie gesti tanto semplici quanto inusitati: egli filma la sua vita quotidiana, tutti i giorni, per un suo diario personale, esattamente come qualche decade fa si faceva col diario cartaceo. Già ragionare sulla frequenza con la quale si scrivevano i propri pensieri su carta e quella con la quale essi si annotano oggi sui supporti tecnologici audiovisivi (supporti che posseggono tutte le caratteristiche per rimpiazzare un quaderno di memorie) la dice lunga sull’impasse del tempo che abitiamo. Da questa pratica Terlizzi compie un lavoro artistico sui testi immortalati, tramutando i frammenti in corpi omogenei, convertendo la prosa in poesia.
Come già indagato in Folder, L’uomo doppio è l’ennesima ricognizione sull’io e sulle sue rappresentazioni che Terlizzi intavola. Attraverso i supporti più semplici e disparati (fotocamera, videocamera, cellulare, Skype e similia) il regista filma la sua vita, vera ossessione affascinante e maniacale dell’autore. Rispetto al suo lavoro precedente, il passo di Terlizzi è qui meno irruento e più ragionato, in pieno accordo con la sua biografia profondamente segnata dal suicidio dell’amica Fabiana. Se in Folder il regista provava con una catartica furia cieca a mettere ordine alla sua vita dopo lo shock dovuto alla perdita dell’amica, ora Terlizzi ha le movenze di chi ha superato l’urto della perdita e sta elaborando il lutto. Fabiana è ancora la scintilla generatrice e la pornografia visiva è la stessa. Ma Terlizzi ha bisogno di spiegarsi e quindi di spiegare cosa gli è successo nel suo passato più prossimo e per farlo ha bisogno di rallentare il passo, guardarsi attorno e ricollocare i pezzi. Pezzi che non hanno mai smesso di vivere attorno al regista ma che ora necessitano di una loro armonica collocazione.
Viaggi, letture, amplessi, mostre, aeroporti, lenzuola, docce e tradimenti. La vita raccontata da Terlizzi è e continua ad essere oscena e depravata, anche se l’ira ha lasciato il posto alla sete di sapere. Che poi questa conoscenza si raggiunga attraverso la distruzione e rinascita dell’ego è questione personale del solo regista. Quanto di affrescante e importante Terlizzi lascia è altro, non rintracciabile nelle sole risposte e domande che l’autore raccoglie e rilancia di continuo. E la bellezza e l’importanza si rintracciano nei modi in cui l’autore riesce a dar conto della rappresentazione della vita, nelle sue assurdità più liberatici, nella sua grana più imperfetta e nei suoi percorsi che sembrano portare in tutti i luoghi e da nessuna parte. Con questa costruzione – quasi mitopoietica – della vita l’autore riesce a (de)realizzare l’esistenza, a rappresentare l’irrappresentabile (il vero tabù e morboso desiderio di tutte le arti) senza tacerne le frammentazioni e claudicanze ma anzi rendendo loro omaggio. Riuscire a dare senso a qualcosa che sembra non averne uno, che è organicità, coerenza e logica. E magia. Difettosa, ma pur sempre tale.