Magic in the Moonlight
Un Allen alle prese con un giochino d'epoca a carte scoperte, un nostalgico gioco di prestigio che rivela luci e ombre del suo cinema recente
Tanto si è detto e scritto negli ultimi anni sull’involuzione di Woody Allen, sulla stanchezza e la ripetitività della sua arte, sul pilota automatico delle sue sceneggiature e sulla cornice da cinema turistico per alcuni sempre più stritolante e dimenticabile. Siamo così sicuri però che Allen sia davvero bollito? Che il suo cinema, anche giocando volutamente al ribasso e inanellando stereotipi, non abbia davvero nulla da dire al di là delle sue passioni e dei compiacimenti ombelicali? Non proprio. Allen ha creato uno degli stereotipi cinematografici più redditizi, dopotutto, l’allure newyorkese di Manhattan. E cavalca, da sempre, uno stereotipo che in realtà nella vita di tutti i giorni, a suo dire, non gli appartiene poi troppo, quello dell’intellettuale dispensatore di citazioni buffe ma sempre calzanti e portatore di sua personale e irresistibile saggezza stropicciata. Che male c’è, allora, a far visita agli stereotipi degli altri? A invadere con un candore smaliziato e sornionissimo degli universi oleografici, a volte così irreali da risultare praticamente paralleli, facendone il parco giochi del proprio estro calligrafico? Nulla. Perché Allen, al di là dei singoli giudizi di valore, che per l’ultimo arco della sua filmografia oscillano parecchio, nel fare ciò continua a non avere eguali e ad essere il cineasta più libero e rigenerante in circolazione. Magic in the Moonlight di tutto ciò è la conferma lampante, ma non manca di ricordarci che il giochino portato avanti da Allen non sempre vale la candela e in qualche occasione non riesce a scagionare del tutto il suo autore da difetti e inciampi, perché la freschezza e la libertà si pagano, e il prezzo è carissimo.
Siamo alla fine degli anni ’20. Stanley Crawford (Colin Firth), nome d’arte all’orientale Wei Ling Soo, è il mago più celebre su piazza, ritenuto da tutti un vero artista, un genio eccentrico e dispettoso capace di far sparire un intero elefante e con un ego e una sicurezza di sé smisurati almeno tanto quanto. Viene chiamato in Costa Azzurra per smascherare una ragazza americana (Emma Stone) che sbandiera la propria capacità di connettersi con mondi soprannaturali ma che Stanley, illusionista ma anche razionalista affilato e non disposto a sconti di alcun tipo sulle proprie convinzioni, ritiene una ciarlatana, proprio perché per lui il trucco ha sempre una spiegazione, anche il più elaborato e apparentemente invisibile. Stanley dopotutto è abituato a lavorare sullo stupore degli altri con cognizione di causa e coscienza dei propri mezzi, non può pertanto accettare che qualcuno gli chieda una sospensione dell’incredulità tanto grande. Le sorprese e i capovolgimenti di fronte sono tuttavia dietro l’angolo, perché il prestigiatore Allen, da sempre appassionatissimo di conigli che escono dai cappelli e di prestidigitazioni varie, rimescola le carte in tavola con nonchalance, forse perché quella stessa sospensione dell’incredulità è lui stesso a chiederla al suo spettatore, dovendo quest’ultimo lasciar passare per buoni, come si diceva, mondi quasi fumettistici riempiti da personaggi simili a figurine (o figurini, come nel caso del ruolo di Firth) esili e bidimensionali, con delle psicologie che sono pura gomma piuma. Ma su ciò non si può certo sindacare: è il gioco di Allen, il suo balocco, un numero di magia sempre uguale e per di più a carte scoperte. In cos’è allora che Allen incappa, cos’è che ridimensiona davvero un film come Magic in the Moonlight, al di là di tutte le prevedibili pulci che gli si possono fare e delle semplicistiche carenze che si è soliti cucirgli addosso in qualsivoglia conversazione da bar?
E’ legittimo chiederselo, perché in fondo non è poi così brutto, l’ultimo Allen. Offre su un piatto d’argento l’immersione un po’ straniante ma non per questo non gradevole in un cinema meravigliosamente sorpassato, quello dei Donen, dei Lubitsch, dei Cukor, perfino, con qualche azzardo in più, dei Wilder: si riesce ad immaginare, oggi, qualcosa di più lontano e anacronistico? No, di sicuro, ma ci si può stare, perché ad ogni gioco dopotutto si gioca conoscendone le regole, se si è adulti e vaccinati. E’ un’opera che parla del diritto allo stupore anche per le menti più intransigenti, del solo raziocinio come categoria desueta per guardare alle cose del mondo, ma soprattutto è un film che postula l’inganno come unico, vero meccanismo fondativo dei rapporti umani. Perché è l’inganno che cela e che disvela, che occulta e che rivela secondo il suo schizofrenico umore. E’ l’inganno che crea orizzonti di possibilità assolutamente relativi in cui qualcuno può essere qualcun altro, è sempre l’inganno che, depistando, si fa produttore di senso e di verità. Ad Allen però non basta tale specchiata acquisizione filosofica, tale gioiosa contraddizione, non basta appellarsi tra il serio e il faceto a modelli di pensiero hobbesiani e nieztschiani, nemmeno cogliere in modo luminoso lo zeitgeist degli anni ’20 attraverso gli obiettivi cinemascope anni settanta del direttore della fotografia, il bravissimo Darius Khondji, che immortalano benissimo il décor dell’epoca manipolando tramonti e accarezzando contrasti di luce con mano calorosa e con sensibilità soffusa, tanto tenue quanto ristoratrice. Perché Allen - questo no, non così consapevolmente - finisce col ridurre il tutto alla conflittualità bacucca tra magia e illuminismo (ancora? Nel 2014?), alla schermaglia amorosa che si limita alla mera funzionalità dell’intreccio, quanto basta per strappare una sufficienza stiracchiata. Il suo film, pur essendo non privo di magia, è davvero troppo senza scopo, per parafrasare il personaggio di Eileen Atkins, la zia Vanessa tanto cara a Stanley. Magic in the Moonlight si ferma pertanto a un limbo che lo rende simile a un autismo, a un film che non è né qui ne là, né del tuo fuori dal tempo né interamente nel suo tempo, e dunque di questo rapporto col tempo totalmente schiavo. Una costrizione che fa sembrare Allen davvero invecchiato, ben oltre tutto il parlare che si fa in giro di allenismo senile e delle pigrizie che si attribuiscono al suo cinema da almeno un ventennio sciorinandole come una messa cantata.