Magog (o epifania del barbagianni)
Il vuoto ed il pieno urbano nell'epifania di una realtà soggetta alla sua derisione.
Magog (o epifania del barbagianni) di Luca Ferri è un’intenzione intellettuale che si concretizza attraverso le dissonanze (assonanze) di significato che si vengono a creare nel contrappunto tra il montato visivo ed il montato sonoro. Già conosciamo, e riconosciamo, al regista la sua capacità di formalizzare cinematograficamente un processo intellettuale, che sia di decadenza e morte (Abacuc), o di meccanica matematica del linguaggio, enunciando così un’equazione alla sintassi del montaggio di materiale preesistente (Ecce Ubu).
Partendo dal romanzo satirico, nichilista ed esistenzialista di Giovanni Papini, GOG, un diario di un indefinito ed ambiguo misantropo, ricco oltremisura (Satana, per alcuni), annoiato dall’insignificanza dell’intera umanità che gli si pone davanti; un punto di vista distaccato e metafisico (o mefistofelico) alla ricerca della natura umana. Punto di vista sul mondo come le geometriche immagini asfissianti di Magog, che solidificano come lapidi sepolcrali la realtà, rinchiudendo la vita nella gabbia della forma, nella geometria e nell’insensatezza del reale. La vita è sempre esclusa dall’immagine, esiste nel fuoricampo, la sentiamo ma non la vediamo, se non nel riflesso generato sull’immobilità delle immagini. Fluisce attraverso l’impasto sonoro, si giustifica generando contrappunti di senso compiuto, messaggi di dissacrante nichilismo esistenzialista, una grammatica del contrappunto che pone in conflitto la staticità, della "perfezione" geometrica, architettonica e compositiva al flusso vitale e sonoro della vita che scorre sul letto morente della forma moderna, invadendo quei modulo abitativi ed escludendo i corpi ed il movimento degli stessi dalle immagini.
La ripresa fissa di una stagno, piatto e torbido, inesorabilmente stantio, ed ogni secondo una goccia che cadendo batte il tempo come un metronomo, ma che non imprime movimento alle solide acque dello stagno e che non sentiamo cadere. Intanto ascoltiamo il suono dell’acqua che scorre, fresca e libera. L’immagine di modellini che ripropongono in scala dei nuovi quartieri residenziali, la perfezione plastificata della vita cristallizzata nell’esempio perfetto di civilizzazione, mentre nel riflesso del vetro scorre la vita vera, il traffico, i discorsi, le aste giudiziarie. E’ proprio attraverso questi contrappunti ossimorici di linguaggio che Ferri mette in scena la realtà come una moderna natura morta, costretta dall’immobilismo ad essere ascoltata.
Gog e Magog sono il terrore contro la civilizzazione, contro la rettitudine, contro l’architettura statica e plastifica. Sono la rappresentazione (citate nella tradizione biblica e coranica) del selvaggio sanguinario, dell’instabilità nell’ordine civilizzato. Al sangue Ferri sostituisce l’anarchia del suono, nella coincidenza tra un’immagine pietrificata e l’instabilità fluente del commento sonoro didascalico. La capacità di Ferri di concettualizzare un’operazione cinematografica questa volta si presta a schernire l’umanità attraverso le loro stesse architetture (sia abitative che discorsive) sintetizzando in un diorama sul reale il nichilismo della sua visione del mondo, un nichilismo ideologico che traspare in contrappunti anche nella realtà di ognuno. Un territorio naturale usurpato da innesti di cemento, da asfaltati nuclei abitatiti, da una natura che si trasporta da un giardino all’altro, dove si costruisce, dove si abbandona, dove si modifica.
Ogni opera di Luca Ferri è uno schiaffo in faccia alla modernità, un’invettiva razionale al razionalismo programmatico nella società moderna. Il reale viene messo alla berlina, viene tolta la maschera della sua struttura manifestando un cuore pieno d’immobilismo cronico: l’umanità si guarda allo specchio e non si piace. Ferri apre la crepa lasciando che la realtà si scontri con la sua rappresentazione, un’epifania di significato in un modello razionale statico, invasivo, contraddittorio e dannatamente (post)moderno.