Is the Man Who Is Tall Happy?
Un film scentrato e fuori sincrono in modo pressoché costante, in cui l’estasi dell’accumulo provoca nello spettatore un senso di spaesato irrigidimento
Is the Man Who Is Tall Happy? di Michel Gondry, laborioso documentario animato – definizione restringente ma comunque obbligata – presentato Fuori Concorso allo scorso Festival di Berlino, ha molto in comune con l’ultimo film live action del regista transalpino, Mood Indigo – La schiuma dei giorni. La loro lavorazione si è perfino sovrapposta, come Gondry provvede a chiarire nell’opera che ha dedicato a Noam Chomsky, ma la contaminazione tra i due progetti pare aver prodotto in entrambi i casi effetti e conseguenze non proprio esaltanti. I problemi alla base appaiono in fin dei conti analoghi: il genio inventivo di Gondry e la sua capacità di tessere in maniera sgargiante interi universi sorretti dalla forza della sua immaginazione si sono infatti tradotti, in questa fase della sua carriera, in un affastellamento di trovate alle quali si fa una discreta fatica ad attribuire un’organicità che renda possibile una ricezione agevole. Senza più la penna di Charlie Kaufman dalla sua, Gondry sembra aver estremizzato in negativo le caratteristiche del suo sbilanciato ma bellissimo L’arte del sogno, prestando il fianco a partiture visive sbilenche e troppo fuori dai bordi anche per uno come lui, che di sicuro non ha mai fondato se stesso sull’omogeneità del tratto. Se Mood Indigo aveva delle scene isolatamente suggestive ma rifiutava in modo esasperato la prospettiva di un disegno d’insieme, Is the Man Who Is Tall Happy? una summa prova anche a farla, ma si smarrisce ben presto nelle infinite deviazioni di una vena fantasiosa esageratamente bulimica per essere messa al servizio di una filosofia strutturale così ramificata come quella di Noam Chomsky. Gli incontri di Gondry con uno dei più grandi pensatori del nostro tempo, filmati con una Bolex 16 mm e inseriti in un modo solo parziale su delle animazioni grezze e fanciullesche, sono il filo rosso di un ragionamento che procede a braccio con la fermezza delle proprie posizioni, ma senza che Gondry riesca ad offrire loro un commento o una rilettura all’altezza. Non c’è rielaborazione, e la sensazione diffusa è che le parole di Chomsky, ovviamente complesse ma non per questo meno fondamentali di quanto non siano, servano al regista solo per fare da sostrato a sue personali e ombelicali ansie e all’umoralità dei suoi interrogativi quotidiani che lo attraversano come uomo e come artista.
Più che inseguire una scientificità filologica, Gondry evita di problematizzare la natura rivoluzionaria e politica degli schemi di pensiero del docente del MIT, che emerge solo a tratti e non per merito suo, e raramente arriva a parafrasare con l’originalità dei suoi disegni animati la materia pulsante delle riflessioni esposte da Chomsky (quello che, presumibilmente, doveva essere l’obiettivo del documentario). Le sue raffigurazioni oscillano tra il calco millimetrico e dunque inutile delle parole dell’intervistato quando va bene, limitandosi a illustrazioni automatiche, e la digressione arzigogolata rispetto al nucleo dei concetti quando va peggio. Il risultato è un film scentrato e fuori sincrono in modo pressoché costante, in cui l’estasi dell’accumulo provoca nello spettatore un senso di spaesato irrigidimento: la commistione dei linguaggi (visivo, grafico, teorico, filosofico) è tale che non si sa praticamente mai dove guardare (e ascoltare), dove mettere i puntelli, dove fissare il baricentro del proprio interesse, finendo così con l’annegare il proprio sguardo in uno schizzo pasticciato. L’auto diario puerile e sincero di Gondry che non di rado si sostituisce all’elaborazione di Chomsky di contro non difetta di momenti di autenticità (l’abnegazione nelle sequenze più ardue, le difficoltà e l’entusiasmo del neofita che ha scoperto il padre della linguistica solo dopo aver letto Cartesio, perfino il rapporto tra droghe e ispirazione), ma il sentore generale è fastidiosamente vicino a quello di un fiume in piena troppo colmo di detriti per scorrere al meglio, oltre che alla cameretta di un adolescente irrequieto zeppa di bozze purtroppo prive di coesione e maturità. La scelleratezza creativa del funambolo non incontra insomma quasi mai la rigidità schematica del sistematico, producendo una frattura formale oltre che culturale (Gondry non manca di sottolineare, ironicamente, il suo inglese palesemente francofono). E alla fine l’immagine che Gondry offre di Chomsky non oltrepassa in nessun caso quel bimbo che rifiutava di ingoiare il porridge a tutti i costi, come metafora della sua irreprensibilità di intellettuale decisivo per la storia del pensiero e del linguaggio moderno.