“Ora tutto il mondo saprà…saprà che abbiamo commesso crimini”
Christina Weiss, Maps to the Stars
8. Il mantra e il ritorno
Focus: ritorno al passato, innesto del mito; parole, parole, parole: mezzi sensibili che non comunicano nulla; riattivazione di una dimensione orale, dove perfino il verbo è traccia sedimentata, calco del mondo, tic e nevrosi plastica dell’immagine. Le storie si raccontano nel loro improvviso baluginare di verità retrospettiva.
Sui miei quaderni di scolaro
Sui miei banchi e sugli alberi
Sulla sabbia e sulla neve
Io scrivo il tuo nome.
Libertà.
Libertà di Paul Éluard diviene mantra spettrale, ponte ideale tra vivi e morti, formula magica per aprire le porte alla dimensione rituale cui tutto Maps to the Stars sembra appartenere. Ma è soprattutto il biglietto d’ingresso che permette l’accesso alle soglie non più di Hollywood ma della mente stessa. In un mondo dove vige un principio di amministrazione virtuale, riflesso nei luccichii delle superfici e delle forme, appare paradossale che sia proprio questa Libertà a cantare la dimensione regressiva e rammemorante della mente. Quando qualsiasi immagine sembra confermare lo statuto di condanna dell’uomo, irrompe catastroficamente un senso d’inevitabilità, il ritorno sclerotizzato di qualcosa che le società tecnocratiche avevano solo superficialmente debellato: il destino. Ma questo si rivela iscritto all’interno di ogni nuova tecnologia, fino a configurarsi come sistema regolativo e intransitivo dell’esistente stesso.
Su ogni carne consentita
Sulla fronte dei miei amici
Su ogni mano che si tende
Io scrivo il tuo nome.
Libertà.
Per inquadrare maggiormente il discorso bisogna tornare ai coniugi Weiss, due fratelli che si sposarono celando il loro segreto agli occhi indiscreti della gente. Il fantasma che minaccerà il loro equilibrio arriverà da Jupiter, o forse da un manicomio remoto: si tratta di Agatha, la figlia allontanata anni prima a causa di un incendio da essa stessa appiccato. Questo ritorno del rimosso, dopo una censura forzata, innescherà tutte le apparizioni del film. Il tema del ritorno si scopre essenziale in Maps to the Stars poiché, a ben vedere, tutto riappare, sia nel terreno filmico che in quello profilmico: dai morti che si affacciano dall’oltretomba ai segreti inconfessabili dei vivi, dal fuoco che divampa alle fedi nuziali e agli incesti, dalle singole condizioni narrative alle lente carrellate che ricorrono sempre agli stessi movimenti. Tutto nel film di Cronenberg è mantra, non solo la poesia di Éluard. Siamo in un continuo, asfissiante succedersi di frangenti narrativi che accettano ben poche varianti: questo regno di ombre e parassiti sembra l’unico possibile all’interno della tragicommedia umana. Solo a pronunciarlo, il termine ritorno rimanda subito alla sua natura teologica: chi ritorna è sempre il figliol prodigo che è colui che muore e rinasce, dopo aver sperperato ogni fortuna. Ma non c’è tempo per morti e rinascite, perché ad accoglierlo non ci sarà più nessun padre caritatevole, ma un uomo che ha voluto estirpare il male dalla sua famiglia, rimuovendo per sempre perfino il nome di sua figlia. E’ come se la parabola neotestamentaria si fosse capovolta: il Figlio si pente (Agatha dice in continuazione che è tornata per fare ammenda), il Padre è estraneo al perdono, dimentico di una troppo umana pietas che oggi suonerebbe falsa. Il racconto morale s’inverte di segno e ciò che rimane della parabola è una sua imitazione perversa e disincantata. Ogni momento della vita diviene l’eco deformata di qualcosa che è già stato detto o già stato fatto. Non c’è alcun sovvertimento dell’ordine in Maps to the Stars: il film deve chiudersi necessariamente con un sacrificio.
9. Colpa e sacrificio
“Con questo anello sei consacrato a me”
Agatha Weiss a Benjie Weiss, Maps to the Stars
Il concetto di messa in scena è di fondamentale importanza all’interno dell’opera. Ma questa messa in scena è, a sua volta, portata avanti dagli stessi protagonisti del film. Ognuno di loro inscena un rito in cui è la dimensione della colpa a fare da catalizzatore esistenziale. Ma la colpa, iscritta nello stesso DNA degli uomini, si trasmette per via genetica-ereditaria: l’espiazione fa tutt’uno con la reiterazione, eppure c’è un’altra via (un’altra vita) all’interno del sempre identico: ecco palesarsi il sacrificio. Il cul de sac dev’essere portato a saturazione, come un sistema chiuso che arriva al massimo grado di intensità, per poi poter implodere e spegnersi finalmente nella mente. Ciò che deve essere sacrificato, all’interno del rito, è il passato stesso. La fede nuziale è il veicolo del rito, le pillole sono lo strumento del sacrificio, la poesia di Éluard il suo innesto, le stelle la meta finale. L’unione fraterna, con cui si chiude il film di Cronenberg, appare come un doppio esistenziale, riproduzione inesatta di un incesto (in)consapevole. In un dialogo dal sapore pestifero e artificioso, la signora Weiss rivelerà alla figlia che lei e suo marito non sapevano di essere fratelli. La variante della riproduzione filiale risiede nella consapevolezza, nell’aver sovvertito l’ordine naturale per mezzo di una libera scelta. Ma questa libertà che infrange i meccanismi dell’ordine costituito, che si ribella alla sua natura mitica, deve necessariamente immolarsi: il suo prezzo è la morte. Ma siamo poi sicuri che sia vera libertà? Che anche questo atto sacrificale non sia parte integrante di un copione tragico da cui è impossibile sfuggire?
10. L’immagine è il fantasma, il fantasma è l’immagine.
La prima sequenza su cui soffermarci è quella in cui il corpo della signora Weiss prende fuoco. Non c’è alcuna fonte esterna d’innesco, è come se la donna fosse soggetta a una sorta di autocombustione. Ci siamo già soffermati sul carattere artificiale delle fiamme, ma ciò che è interessante è il valore di quel fuoco. Se si è scritto nei precedenti capitoli che l’identità di ogni personaggio è costituita dai suoi stessi fantasmi, si può anche invertire il rapporto: l’io di ogni personaggio è distrutto, annullato, annientato dal suo stesso passato. La colpa, fondamenta esiziale dell’interiorità, infiamma il cuore della vittima, lo iscrive all’interno di un ministero della condanna (la vita stessa) e, al punto di massima tensione, finisce per incendiare il corpo. Ma quel corpo sembra tutto eccetto che reale: è leggero, posticcio, perfino ridicolo, ha delle movenze che ricordano più l’articolazione di un manichino che quella di un essere umano. Ciò che viene a mancare è il peso della carne. Per un momento ci viene anche il sospetto che forse si tratti dell’ennesimo fantasma. Ma allora a cosa dobbiamo credere? I piani della realtà si confondono e, una volta per tutte, diviene impossibile definire chi è reale e chi è fantasma. Ma non ha nemmeno più senso farlo: i fantasmi, come abbiamo visto, sono involucri più reali dei simulacri che abitano il mondo. E’ necessario allora estendere il discorso al carattere fantasmatico di ogni inquadratura del film.
L’etimologia ci viene in aiuto. Cerco la definizione di fantasma su un dizionario etimologico online.
Certamente il fantasma viene identificato con l’apparizione e la fantasia, ma esso è anche – e soprattutto – immagine. Perché cos’è l’immagine se non uno spettro, un’ombra, una sembianza, un’idea? Il film, regno dei morti e dell’altro, si trasforma così in un intercettatore, in una sorta di rivelatore di campi elettromagnetici. La natura stessa dell’immagine è la sua condanna: il suo esser doppio. Il film di Cronenberg riporta tutto alla stella di fuoco, al circolo infinito di varianti ectoplasmatiche pronte a modellare il singolo. Il problema è che le immagini sintetiche hanno inghiottito il mondo, le copie hanno dimenticato i loro originali e vegetano in circoli infiniti, proiettati oltre il tempo. Non possiamo più dire di nessun personaggio se sia reale o meno, perché non avrebbe alcun senso. Quando Benjie Weiss, incoraggiato dalla sorella, torna a casa per sfilare la fede nuziale dal dito del padre, non c’è alcuna traccia della combustione di poco prima. Ma l’aspetto più sorprendente è lo stato dell’uomo: Stafford Weiss, occhi aperti su un punto fisso del nulla (potremmo anche dire eyes wide shut, occhi chiusi spalancati), giace immobile e anestetizzato, come saldato al suo sdraio, incapace di intendere e di volere. Lo shock, dovuto non tanto allapresunta morte della moglie/sorella quando al riconoscimento del carattere artificiale della realtà, lo porta a uno standby percettivo davvero inquietante. E’ come se il personaggio, una volta presa consapevolezza del suo carattere di mera carica narrativa, cadesse subitaneamente in uno stato di perenne trance: riconoscersi vuol dire spegnersi, o meglio, rimanere in attesa. Per un momento viene quasi il sospetto che questa storia d’incesti e potere sia in realtà l’arzigogolata fantasia di una mente ridotta allo stato vegetale. Ipotesi tanto affascinante quanto tremenda.
Seguirà il rito sacrificale dei due figli: ennesimo doppio esistenziale, suicidio mitico che blocca la coazione a ripetere per mezzo di uno scambio simbolico di fedi nuziali. Ma le stelle del cielo, ancora una volta, non sono quelle reali, ma simulacri postprodotti che hanno la funzione di ospitare i titoli di coda. Non appena Cronenberg propone una via d’uscita subito la disdice, nella lucida consapevolezza che qualsiasi presunta libera scelta sia in realtà parte di un copione archetipico. Così finisce (così continua, sarebbe meglio dire) Maps to the Stars. Di nuovo la domanda dell’amico balena nella mia testa: E se il prossimo film di Cronenberg fosse una tragedia di Shakespeare?
11. Mappe di un impero.
“Tornatene in Kansas, Dorothy, è meglio”
(Havana Segrand a Agatha Weiss, Maps to the Stars)
Maps to the Stars è un film in assenza. Ma in assenza di cosa? Del cinema, è chiaro. Sebbene sia un film ambientato a Hollywood, tra i capricci delle star e i poli industriali del set, ciò che manca è il processo di gestazione creativa dei film: rimane solo l’altra faccia del cinema, quella spuria e truccata, quella del gossip, della chiacchiera e del botox, quella inghiottita dalle fauci di un sistema-kamikaze. Nell’impetuosa radiografia della Hollywood contemporanea, scritta da un Bruce Wagner mai così vicino a Bret Easton Ellis, ci si rende conto che del cinema non rimane nemmeno l’odore. I grandi autori di ieri e di oggi possono essere solo nominati: l’epoca orale fagocita tutto quanto, da Paul Thomas Anderson a Bernardo Bertolucci, passando per Ryan Gosling e Il sesto senso. Eppure Maps to the Stars costruisce mappe, traccia itinerari che lo rendono impossibile da decodificare se non facendo appello ad altri film. In quest’ultimo capitolo ci soffermeremo sulle strade perdute che collegano l’opera ad altri immaginari, più o meno lontani: immaginari questi che sono ormai stati inglobati, parodiati e infine rivisitati dal regista.
Abbiamo già parlato del corpo cinematografico di Cronenberg e dell’impossibilità di staccarne i pezzi, di poter parlare di un film senza dire, contemporaneamente, tutti gli altri. Questo non ricopre solo l’ambito tematico ma perfino le singole circostanze narrative o il sistema compositivo di numerose inquadrature: tanto per dirne una, il coito crudele e gratuito consumato da Jerome Fontana e Havana Segrand in limousine ripropone specularmente quello tra Eric Packer e Didi Fancher in Cosmopolis. O ancora: Benjie Weiss con la pistola in mano, in uno dei tanti climax negati del film, rimanda a tutte le altre protesi del cinema cronenberghiano, da quelle erotiche di Crash a quelle profetiche/mcluhaniane di Videodrome, da quelle videoludiche di eXistenZ all’arma-suicida del finale di Cosmopolis. Del resto la geniale scelta di casting che vuole Robert Pattinson a fare l’autista di limousine apre il film a una serie infinita di déjà vu. Non è d’altronde il déjà vu il meccanismo iscritto nella forma stessa dell’opera (con le varianti del remeake e del ritorno)?
Proseguendo lungo i collegamenti instabili della mia cronomappatura: abbiamo visto come il retrofondo luccicante di Maps to the Stars non sia poi così distante da quello di The Canyons o, perfino, di Holy Motors. Nel film di Carax esisteva però ancora un player disposto a vivere la vita degli altri, dimentico della sua identità ma consapevole che da un’altra parte e in un altro tempo, lui era qualcuno e non qualcun altro. Una forma di autentica nostalgia che non ibernava il film in un romanticismo d’antan, ma rendeva ancora possibile pensare a un’idea, seppur vaga, seppur indefinita, di identità. In Maps to the Stars manca il punto di vista, il soggetto guardante, il player in grado di configurare la sua realtà. E’ anzi il player stesso a essere introiettato nel mondo virtuale, dove è continuamente osservato, spiato, perfino programmato. Siamo in una sorta di versione turpe e depravata di Viale del tramonto, privato di grazia e poesia, affondato nell’automismo narcolettico dei vivi e nella nuova carne dei morti. L’immagine di Norma Desmond, divina e celestiale, ha generato una serie infinita di epigoni autodistruttivi. La dimora di Norma, museo di se stessa, regno di spettri e fantasmi, è l’originale perduto, la genesi di una decadenza che ha ormai varcato ogni confine, finendo per ricoprire gli interi canyons di Hollywood (e non solo). Nessun inizio del tempo, nessuna fine, solo una serie infinita e sfiancante di doppioni. Le strade della mappa proseguono: cerco tra i miei appunti, ampliati in maniera considerevole nell’arco di queste ultime tre settimane. Grazie allo stimolo di un amico emerge il nome di Stanley Kubrick, e una freccina immediatamente pone la mia attenzione su Shining, archeologia dell’immagine-fantasma, della non-distinzione tra vivi e morti. Se tutto in Maps to the Stars soggiace a un ordine geografico vincolante, nell’inconscio siamo (ancora) all’interno dei labirinti mentali di Jack Torrance. Avanzando tutto si deforma fino a diventare irriconoscibile: l’Eden luccicante delle star diviene un inferno popolato di transiti intestinali, ustioni cutanee e sangue implacabile. Non a caso l’Inferno viene definito nel film un mondo senza narcotici. Sembra quasi di essere all’interno di un incubo dove i volti delle persone si trasformano in continuazione: ecco che le mappe per le stelle conducono inevitabilmente all’immaginario sotterraneo di David Lynch. Sembrano lontani ormai i tempi in cui si poteva etichettare superficialmente i due David come regista del corpo l’uno e regista della mente l’altro. Oggi il cinema di David Cronenberg è sfociato inevitabilmente in quello di David Lynch, come per effetto magnetico. Questi due inseparabili trovano l’unisono nel tema del doppio. Arriva un momento in cui le mappe interstellari diventano imperi della mente: si tratta di un cinema arrivato al punto liminale, a un passo dalla schizofrenia e a tre dal delirio. E’ il metodo pericoloso di chi indaga le geografie sotterranee della psiche. Lynch dirigeva conigli in una sit-com deforme, Cronenberg inscena i burattini di una soap-opera usurpata da metastasi cancerogene. La nuova carne deve rinascere da lì, dai terreni insondabili della psiche, dalle ipotesi di una narrazione che si ritorce su se stessa, fino all’implosione di una capanna nel deserto. Eccole, sono proprio loro: le strade perdute.