Il traditore
Tra impalcature di genere, emanazioni oniriche e ricostruzione storica, Bellocchio torna a raccontare la Storia d’Italia dall’interno delle piccole storie, dei piccoli uomini, firmando uno dei suoi film più magistrali e riusciti.
È un maxi-processo quello che si mette in scena: giornalisti e telecamere, flash, microfoni, grandi gabbie colme di corpi, avvocati e magistrati stretti nelle vesti ufficiali, tutto il cerimoniale e la formalità giuridica di un Stato che manifesta e afferma sé stesso attraverso l’esercizio della Legge. Ma qualcosa avviene che stona e sfugge ai codici che quella sede impone, tra le grida dei presenti e sotto gli occhi di decine di poliziotti due degli imputati iniziano a fare l’amore, la forza pubblica interviene mentre una donna urla di lasciarli finire. È il 1986 e Marco Bellocchio filma il suo Diavolo in corpo, intrecciando echi politici e pulsioni psichiche, erotismo e autodistruzione, e in uno dei momenti più belli del film due brigatisti cercano di scardinare con il sesso la loro gabbia istituzionale, mentre il processo si avvia a conclusione grazie alle testimonianze di un pentito. Intanto, fuori dallo schermo, un altro maxi-processo è in corso, non sono terroristi questi ma mafiosi, tra i più importanti e bestiali di Cosa nostra, chiamati a rispondere di fronte lo Stato grazie alla lunga testimonianza del primo pentito di mafia, Tommaso Buscetta, Il traditore. Di nuovo dentro lo schermo, più di venti anni dopo, Bellocchio torna nelle aule di tribunali, torna a corpi in gabbia e palchi istituzionali, ma la lotta politica cede il passo alla farsa, al grottesco susseguirsi di macchiette, esibizionismi, pantomime, derisorie commedie dell’arte, alla sbruffoneria di assassini belluini che pavoneggiano un’autorità indipendente e alternativa a quella statale. I mafiosi si spogliano, mutilano, cuciono la bocca e fingono crisi epilettiche, urlano e scimmiottano, declamano e sbeffeggiano, mentre l’altra faccia di Cosa nostra si percuote il petto e agita le braccia attraverso un coro di mogli piangenti e vestite a lutto. È un vero e proprio teatro, una contro-storia che sbeffeggia l’esercizio del Diritto e la superiorità ubiquitaria della Legge; il tribunale diventa una frontiera dove si combatte per affermare l’esistenza e la necessità dello Stato.
Assieme a Martone, Marco Bellocchio è il solo regista italiano che continua oggi ad affrontare la Storia d’Italia, e lo fa ancora una volta mescolando pubblico e privato, lasciando che l’uno si manifesti nell’altro e viceversa. È come se per il regista di Bobbio non fosse possibile raccontare la macro-Storia senza scoprire la mini-Storia, la traccia biografica di personalità che si intrecciano agli eventi plasmandoli, decretandoli, soccombendovi. Magistralmente Bellocchio riporta alla mente i momenti migliori del cinema civile italiano, l’inchiesta e l’indagine di Rosi, Petri, Lizzani, ma la resurrezione cronachistica non può contenere uno sguardo che sempre resta affamato di ciò che sta oltre la realtà evenemenziale e che vive nella mente e nelle notti dei suoi personaggi. Da qui l’emergere ribollente di sogni e visioni, un magma che come sprazzi di inconscio collettivo porta a galla tanto gli orrori del singolo quanto i bisogni della comunità (la passeggiata finale del Padre-Aldo Moro di Buongiorno, notte). Il traditore è sì la ricostruzione fedele di un momento storico della vita italiana – e per farsi un’idea di quanto lo sia basta vedere pochi minuti del reale confronto in aula tra Buscetta e Pippo Calò – ma anche e ancora una volta la trasfigurazione metafisica di un trauma collettivo, quel nodo metastatico che ancora affligge il paese ma che, con le parole di Giovanni Falcone, «è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine».
Ma la magia sorprendente di questo film – e l’elemento che forse più di altri ne ha decretato lo straordinario successo nelle sale – è il modo in cui per la prima volta Bellocchio mescoli il suo approccio onirico e intimo alla Storia con il genere, e in particolare il gangster movie, che non bisogna aver paura di chiamare in causa in un film così violento, adrenalinico e ritmato, capace di affiancare agli incubi di Buscetta, alle straordinarie composizioni “televisive” delle celle riprese dalle videocamere, o agli affondi grotteschi e così tipici di Bellocchio contro le eminenze grigie del Potere, sequenze clamorose come le minacce di morte in elicottero alla moglie di Buscetta, che sembrano uscire da altre galassie di cinema italiano, oggi sconosciute (sequenze che, bene ribadirlo, non sarebbero state altrettanto potenti senza l’interpretazione davvero gigantesca di Pierfrancesco Favino, corpo possente e voce impastata, meraviglioso pastiche di siciliano e portoghese che è talento puro).
Lontano dal realismo sporco di Garrone o dalla sinfonia pop di Sorrentino (Gomorra, Il Divo), Bellocchio tira fuori alla bellezza di ottant’anni il suo Padrino, ma come il grande uomo di cinema che è ne raffina la dimensione morale, lo scarto umano, costruendo un ritratto complesso e sfaccettato di un traditore capace di denunciare un mondo criminale e sentirsi fino all’ultimo lui il tradito, colui che è stato colpito alla schiena da un sistema dominato da belve in cui non è più in grado di riconoscersi. Il traditore non sposerà mai il punto di vista di Buscetta ma compie lo sforzo estremo di affondare nelle contraddizioni del reale, senza cercare soluzioni facili o consolatorie. È il ritratto di un assassino, di un pentito, di un mafioso, di un uomo che amava e ha perso i suoi figli, un criminale forse etico, certamente sfuggente, figliol prodigo riaccolto e forse anche sfruttato dallo Stato, certamente temuto e odiato dal Potere, attorno al quale Bellocchio costruisce un’epica criminale che si ritaglia, già ora e subito, un posto nella storia del nostro cinema.