Copia originale
Marielle Heller filma un racconto ironico e autentico unendo il ritratto intimista di una donna difficile a una satira pungente sul mondo letterario e i suoi appassionati.
Lee Israel era qualcuno in passato. Giornalista e autrice di diverse biografie che si erano rivelate buoni successi commerciali, a metà degli anni Ottanta vede la propria fama calare drasticamente fino a trovarsi sola in un appartamento infestato dalle mosche e più di un affitto arretrato che aspetta di essere pagato. La sua agente la evita, il suo gatto è malato, il suo nuovo libro è lontano dall’essere pubblicato, le persone la ignorano, la irridono o si offendono per le sue risposte sgarbate.
È il 1991 ed è da qui che inizia Copia originale: da un personaggio così frequentemente ridotto a stereotipo che i rischi di farne una macchietta erano altissimi. Lee Israel (Melissa McCarthy) non è più giovane, non è sessualmente attraente, è povera, non è gentile né si sforza di risultare simpatica. Sarebbe assai facile raccontare una vita del genere in toni parodistici – ecco la vecchia maleducata che tocca sopportare in fila alle casse dei negozi – o patetici – ecco la povera anziana che troppo tardi sconta con la solitudine l’aridità del suo cuore – ma il film di Marielle Heller si muove subito controtendenza, proprio perché la sua stessa protagonista, prendendo alla lettera le parole della sua agente che le ricorda che avere un caratteraccio è un lusso che solo la gente famosa può permettersi, decide di impersonare quelle personalità letterarie caustiche, ricche di sarcasmo e risposte corrosive per cui il pubblico, lungi dall’offendersi, si infiammava in nome della celebrità che rende quasi tutto tollerabile.
La truffa di Lee Israel è una storia vera, avvenuta nei primi anni Novanta, concretizzatasi nella riproduzione di circa 400 false lettere autografe di scrittori famosi, scritte e vendute ai collezionisti, e nella conseguente riproduzione delle loro voci, del loro carattere, a metà fra ciò che erano realmente e ciò che gli appassionati si aspettavano di trovare nei loro carteggi privati. Che si tratti di Dorothy Parker o di Noël Coward, il pubblico di acquirenti si entusiasma per lo spirito, il carisma e le frecciate ad effetto e compra tutto quello che Lee offre, finché ovviamente il sistema non rischia di rompersi. E l’illusione crolla.
Copia originale presenta un’acuta lettura del pubblico letterario, rappresentato come un bambino facile da ingannare. Tutto sta nel «saper giocare secondo le regole del gioco», ricorda l’agente di Lee: bisogna essere disponibili, firmare copie, tenere incontri col pubblico; per la misantropia e l’alcolismo sfrenato bisogna attendere la consacrazione. Arrivati a quel punto la fede nell’icona dello scrittore è oramai tale da superare l’interesse per le singole opere nonché la reale persona. Non a caso Lee si scopre bravissima a essere una Dorothy Parker migliore e perfino più divertente dell’originale. Rimane il dilemma di cosa fare della vera voce di Lee, apprezzata e accettata solo quando celata sotto più celebri spoglie.
Quasi a farsi carico anche stilisticamente di questo paradosso, il film di Heller evita ogni facile risposta consolatoria, raccontando Lee come personaggio sfaccettato e difficile da definire. Farne l’eroina del racconto non significa farne un genio incompreso, perché Lee è effettivamente fredda, sgarbata, attaccata più al proprio gatto che alle persone, incapace di lasciarsi andare in una relazione sentimentale. Respinge tutti intorno a sé, e l’unico vero rapporto che riesce a instaurare è con Jack Hook (Richard E. Grant), un malridotto dandy omosessuale con cui condivide sbronze, scherzi e in seguito la propria attività criminale; un’amicizia tenera e maldestra, in cui ognuno riflette nell’altro le proprie intime meschinità.
Ironico, ammantato di una sottile nostalgia vintage per i bei tempi che furono, Copia originale racconta in modo godibile ma profondo una donna respingente, piena di difetti ma anche di talento, senza abbellirla né farne un cliché. Ma soprattutto rivela quanto la nostra fascinazione per la letteratura e i suoi eroi sia spesso una costruzione illusoria vicina alla fede religiosa, fatta più di vanità che di reale confronto con i suoi artefici. E a pensarci bene, in fondo non c’è niente meglio del cinema per raccontarne l’apparenza che vince sulla sostanza, lasciando sullo sfondo, presente ma invisibile, la fatica reale, ben poco seducente, che è parte stessa dello scrivere.