Scream VI
Revisionismo critico addio: il nuovo Scream inaugura lo slasher delle vittime come vendetta sadica sul mondo. Escluso il killer, tutti gli altri son cattivi.
Come tanti ex campioni di postmodernismo, anche Scream va riscoprendo il fascino discreto della linearità. Relegati ai '90 gli intenti meta-parodici originali, la serie per come si ripresenta oggi appare indistinguibile da un Venerdì 13 qualunque: e come il più classico degli slasher, è possibile giudicarla giusto per la fantasia degli ammazzamenti (effettivamente discreta), più che per qualsivoglia riflessione decostruzionista. Nella sua algoritmica convenzionalità, l'innesto numero sei si presta al bilancio storico in rappresentanza dell'intero sottogenere, ancor più se confrontato allo spirito autenticamente sovversivo (almeno per quanto concerneva le regole della narrazione orrorifica) che animava l'opera di Wes Craven e del mai troppo rivalutato Kevin Williamson. Assegnato il copione al factotum del reboot James Vanderbilt (Amazing Spiderman, Total Recall, Robocop) e la regia ai passanti Bettinelli-Olpin e Gillet (Finché morte non ci separi, da cui ereditano Samara Weawing nel cameo migliore), eccoci già al secondo capitolo di una nuova saga inaugurata lo scorso anno in chiave legacy - sta a dire, liquidando i vecchi protagonisti in camei da tre pose, e introducendone figli nipoti e pronipoti per una mitologia pressoché nuova.
"In un franchise nessuno è al sicuro, e ogni nuovo episodio è un ribaltamento del precedente", declama lo script nel consueto giù-le-carte. Mai come oggi però l'analisi appare discutibile: quello che Scream VI certifica è semmai lo stato di atrofia del concetto, sempre più sottomesso a un universo soffocante di piccole regole, paletti, convenzioni. Più che regno della libertà creativa, il franchise contemporaneo sembra sopravvivere della ripetizione come maledizione vampiresca (idea che il simile Halloween Ends spingeva a livelli quasi metafisici). I singoli film procedono in fila, composti come vacche al pascolo: le possibilità dei cento minuti si spengono in un racconto circolare, auspicabilmente infinito, con lo "sviluppo" dei personaggi come unico motore.
È proprio nella definizione dei protagonisti che si manifesta con più chiarezza la nuova anima di Scream. Gli originali di Williamson furono forse il tratto più marcatamente distintivo del prototipo: guitteschi, isterici, burattini grotteschi consapevoli di un ruolo di carne da cannone che affrontavano ridendo. Gli ideali eredi proposti da Vanderbilt (e dall'intero horror mainstream contemporaneo) sono da parte loro figli dell'infame creative writing televisiva: in quanto tali, devono ostentare un trauma di variabile misura, un carattere ineccepibile e corretto, tanti piccoli conflitti relazionali risolvibili in un abbraccio. Sempre nel giusto, positivi e rigorosamente relatable.
Scream VI pone dunque una domanda. Data ormai per dogmatica la piena identificazione tra personaggi e spettatore, che spazio rimane a un genere che ne ha storicamente presentato la salvezza come premio etico al comportamento? Il Memento Mori non può colpire un cast il cui unico tratto definente pare essere l'integrità morale: sono le regole, come la serie ha sempre ricordato. Scream 6, slasher con il body count più basso della storia, risolve il paradosso inaugurando il primo horror in cui ognuno è "vittima", e dunque nessuno può esserlo (tranne la sgualdrina, senza scampo nel 2023 come nel '96). Cacciatori e non più prede, i nuovi eroi sconfiggono infine l'immanenza della mortalità, lasciandosi dietro un cimitero di mostri mai così impotenti.
Muovendosi oltre lo slasher, si direbbe che Scream VI incarni la maniera in cui la contemporaneità va affrontando in senso assoluto la messa in scena delle proprie angosce. Già a partire da The Witch (è forse il film di Eggers l'horror più influente dello scorso decennio?), il cinema di paura ha sempre più spesso inquadrato l'arrendersi al "lato oscuro" come gesto perverso di emancipazione individualista. Ma c'è qualcosa che disturba, una nota stonata nella fanfara. La grazia virginale con cui gli eroi di Scream 6 attraversano immacolati fiumi di sangue fino al libidinoso payback, lo pone su un piano diverso rispetto ai classici "scontri finali" del passato. Come nell'action più truce, il godimento della vendetta è ora accolto, applaudito, incoronato dalla macchina da presa come tappa ideale di un percorso ascendente.
Non più messo in discussione dalle sue paure peggiori, lo spettatore è oggi protagonista di un delirio sadico di rivalsa, tanto più feroce quanto più amabili e inclusivi e traumatizzati i suoi avatar cinematografici. Ed è dunque il mostro, non più le vittime, ad assumere su di sé i tratti negativi del mondo infame, da reprimere in un liberatorio sacrificio di sangue.
Benedette dalla presunzione morale di rettitudine, intoccabili per diritto divino, incontestabili su un piano ideologico e divinizzate nelle traiettorie personali, le onnipotenti eroine del nuovo Scream fanno più orrore di ogni squartatore. Il ghigno di Dani Ardor indicò la via, quello di Sam Carpenter raccoglie e rilancia ancora l'idea di horror come fantasia compensatoria: scoprirsi protagonisti di un universo di violenza senza conseguenze, in cui emanciparsi dal ruolo di vittima - e rivendicare quello del torturatore.