Message from the King
Un revenge-movie violentissimo e brutale per l'esordio americano di Fabrice du Welz
É il richiamo di un legame che si perde nel tempo quello a cui risponde Jacob King, che lo porta dal suo Sud Africa fino in America alla ricerca di una sorella perduta, tra i ghetti e le ville di Los Angeles. Un legame che dovrà onorare ad ogni costo, anche con il sangue di mezzo mondo criminale, se necessario.
Abituati come eravamo ad accostare il nome di Fabrice du Welz a un cinema spesso marginale, disturbante e respingente – sicuramente fuori misura ed estraneo a ogni canone, anche laddove chiaramente riconducibile a un genere (vedi l’horror) – potremmo avere qualche problema di fronte alla deriva convenzionale che – almeno apparentemente – contraddistingue un film come Message from the King.
Dopo gli orrori claustrofobici e grotteschi di Calvaire e gli amori tossici e impossibili di Alleluia, l’esordio americano di Welz, targato Netflix, parrebbe infatti fortemente ancorato alla tradizione del noir e del poliziesco, genere con cui il regista belga si era comunque già cimentato nello sfortunato Colt 45, e che qui prende forma nell’implacabile escalation di violenza di un uomo in cerca di vendetta, con tutti gli stilemi e i crismi del caso.
Eppure, guardando meglio, tra le pieghe di un revenge movie classico e lineare, oltre la granitica determinazione di un novello giustiziere della notte, in Message from the King c’è la consueta abilità del regista nel saper amalgamare con naturalezza e gusto unico autorialità e logiche di genere, la stessa forza prorompente e insostenibile del suo cinema più impattante ed eccessivo.
Rifuggendo il rischio di impantanarsi dentro l’ennesimo noir convenzionale o in una copia del Drive di Refn (che pure, a tratti, pare rievocare esplicitamente), Du Welz guarda alla blaxploitation, mette nelle mani del suo protagonista (un lanciatissimo Chadwick Boseman, ben calato nella rabbia monocorde del suo personaggio) una catena da bicicletta e, menando fendenti fino a sconfinare nello splatter, fa piazza pulita di qualsiasi orpello o sovrastruttura ingombrante.
Quello che ne resta è un’opera brutale ed essenziale, un omaggio rigoroso eppure personalissimo a un intero cinema, dove il ritmo frenetico detta il passo al crescendo di violenza e lo sguardo dell’autore si presta completamente alla materia trattata, mitigando il suo tocco disturbante solo per poi ritrovarlo e farlo esplodere quando meno lo si aspetta. Non c’è tempo (o quasi) per la retorica nei mondi bestiali di Du Welz, né per il dubbio o la pietà, rimane solo l’azione (preferibilmente violenta) come unica, salvifica soluzione da opporre a un Male sempre più banale, anche e soprattutto quando incarnato nelle goffe e nevrotiche fattezze di un vizioso produttore cinematografico (un bravissimo Alfred Molina).
Per le strade di una Los Angeles oramai iconica seppure trasfigurata, un inferno di desolazione che pare volersi negare persino allo sguardo, va così in scena un dramma cupo e senza speranza, essenziale e rabbioso come solo la vendetta può essere, ennesima testimonianza del talento sorprendente e versatile di uno dei più interessanti autori contemporanei.