Moonlight
Il film di Barry Jenkins intreccia tematiche gender e black per colmare un vuoto d’immagine e dare luce ad un racconto di intima potenza sulla ricerca dell’identità.
Con molta più forza di The Birth of a Nation, operazione analoga per importanza politica e urgenza rappresentativa, Moonlight di Barry Jenkins capitalizza l’attenzione mediatica, produttiva, festivaliera suscitata nella società americana dalle recenti tensioni razziali, per dare luce ad un racconto di intima potenza sulla ricerca dell’identità. Del resto il 2016 si configura ormai come l’anno di riscoperta delle tematiche black da parte del cinema americano, un’apertura di certo dettata dal modo in cui il mercato hollywoodiano insegue l’agenda sociale, ma dalla quale possono comunque scaturire preziosi frammenti di un immaginario troppo spesso ignorato, o peggio rinchiuso in formule facili ed eterodirette. Del resto Moonlight colma un vuoto d’immagine per parlarci proprio di questo, ovvero di come il corpo altro debba scontrarsi con il contesto in cui abita anzitutto dal punto di vista di immagine, di apparenza, di stereotipo, essendo sempre il corpo, e quindi il suo aspetto e il suo controllo, il primo terreno di scontro per la definizione dell’identità.
Seguendo una sovrapposizione poco frequente tra tematiche black e gender, Moonlight racconta la storia di Chiron, un ragazzo afroamericano nato in un quartiere estremamente povero che cerca con difficoltà di indagare la propria identità sessuale. La vicenda si sviluppa in tre atti che corrispondono a diverse fasi di crescita (infanzia, adolescenza, età adulta), una struttura con la quale Jenkins mette in scena una trasformazione fisica e mentale dagli esiti opposti.
Mentre il corpo del giovane Chiron si fortifica crescendo, e si blinda inseguendo il modello paterno imposto dal personaggio di Juan, a tale espressione di virilità corrisponde una retrocessione dell’identità e della sua personalità più intima. Jenkins, che parte dal testo teatrale In Moonlight Black Boy Look Blue, esemplifica tale processo scandendo il percorso temporale con tagli netti, stacchi di montaggio nei quali Chiron cambia radicalmente, mentre uguale resta il suo rapporto impossibile con la madre drogata e le difficoltà a manifestare le proprie inclinazioni sessuali. Non a caso ogni capitolo si apre con un nome diverso per Chiron,una schizofrenia onomastica che alterna soprannomi e prese in giro e rilancia la difficoltà riguardante la definizione di sé.
Il cuore pulsante di Moonlight è il terzo atto di questa struttura, il più importante in quanto lo spettatore vi ritrova uno Chiron calato radicalmente in nuove vesti, imprigionato in un certo immaginario “gangsta” assunto per trasmettere verso l’esterno un senso di aggressione e imponenza fisica. Paradossalmente Chiron è diventato proprio il tipo di persona a cui deve la dannazione di sua madre, uno spacciatore di strada temuto da subalterni e rivali, in un contrappasso dal sapore perverso che Jenkins però non approfondisce, preferendo piuttosto concentrarsi sui dettagli visivi e compositivi di uno sguardo che sfocia presto nell’eccesso formale.
La costruzione registica di Moonlight infatti è fin da subito ostentatamente ricercata, stilizzata nel suo volersi staccare (giustamente) da quell’abusata patina di iperrealismo propria di un certo cinema indie, americano e non. Tuttavia Jenkins, che tecnicamente è un regista di talento e si vede, si rifugia in una sovrastruttura stilistica che invade e soffoca la vita dei personaggi, appesantiti da soluzioni superflue e posticce nella loro ricerca estrema. Il risultato respinge presto lo sguardo e rischia più volte di disinnescare la grande e spontanea umanità con cui il regista riesce a ritrarre i suoi personaggi. Solo arrivato al terzo atto Moonlight placa la sua insistenza formale e decide di affidarsi finalmente ai caratteri messi in scena e all’intrinseca potenza del loro campo e controcampo, trovando in questa naturalezza d’espressione l’emozione e la consapevolezza degni di un grande film.